Il brano proposto in questa domenica non è esattamente consecutivo a quello di domenica scorsa, mancano alcune righe che narrano il contesto: Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti.
Erano sulla strada; erano: al plurale, cioè insieme; sulla strada. Fare strada insieme, oggi diciamo sinodo. Certo il cammino insieme dei Dodici con Gesù si svolge in circostanze non tranquille: vanno a Gerusalemme, Gesù va incontro alla morte. Cammina davanti e i Dodici sono sgomenti: la morte del Maestro cosa rappresenta se non la fine di tutto? La fortezza di Gesù non è da tutti; lo sgomento invece è sentimento subdolo, può presentarsi in tutti i cammini, tanto più se il territorio attraversato è sconosciuto, per molti aspetti percepito ostile.
E cosa succede durante questo “sinodo”? Lo spettacolo offerto dai Dodici non è edificante. Nel brano precedente avevamo visto Pietro ricordare tutti beni che ha lasciato, probabilmente sperando di trarne speciali ricompense. Oggi vediamo due che, nel regno, vogliono i posti d’onore; di conseguenza, gli altri dieci che si risentono. Giacomo, Giovanni, dopo Pietro, sono i primi nella gerarchia interna dei Dodici, quelli prescelti per rimanere vicini nei momenti speciali, dal Tabor al Getsemani. E se quelli del “cerchio magico” si comportano così, dagli altri cosa potremo aspettarci? L’evangelista non si fa scrupolo di mostrare le debolezze dei prescelti, l’apostolo Paolo arriverà a vantarsi delle debolezze.
Sinodo e debolezze sono pure parole dei giorni nostri. Anzi sarebbe grave scandalo derubricare a debolezze i peccati gravi che ogni giorno andiamo scoprendo nella Chiesa. Il vangelo ci insegna a farci carico di tutto questo, senza troppi vincoli di facciata. E, mentre proviamo a camminare insieme, farci carico dello sgomento per la perdita delle certezze di contesto può diventare occasione di vanto per il vangelo.
Dopo questa lunga premessa, possiamo dedicare qualche rigo alla parola del giorno, servizio, in greco diaconia. “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire”
Lo stesso si deve poter dire di noi, suoi discepoli: “chi non vive per servire, non serve per vivere”, come dice di tanto in tanto anche il Papa. Ma che vuol dire servire? Chi è il servo? E poi la domanda vera: io chi servo? Possiamo fare tante cose con spirito di servizio, anche l’attività lavorativa retribuita, anche le cose che dobbiamo fare perché ci tocca farle. Ma farsi servo probabilmente vuol dire qualcosa di diverso.
“Il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità” dice Isaia.
Giustificare è parola ad alta densità teologica e, molto opportunamente, ce ne teniamo lontani. Piuttosto vorrei giocare con le parole: iniquità che richiama inequità, squilibrio. Il servo è colui che si fa carico dello squilibrio. Il profeta “vede” un mondo in perfetto equilibrio, dove siamo tutti commensali al tavolo degli stessi diritti, della stessa felicità. Magari accanto al profeta sorge chi organizza le speranze per provare a cambiarlo questo mondo, dove il pianto ed il riso non sono equamente divisi. Ma, nel frattempo, il servo prende atto dello squilibrio e lo accentua a suo svantaggio. Il servo si prende la croce che sta lì e che nessuno si prende; ed è perfettamente consapevole che altri, i dritti, i “caporali” per dirla con Totò, quella croce non la toccheranno con un dito.
Grazie ai servi, che accettano di esserlo, tante cose prendono vita: il pranzo di famiglia, con i soliti parenti che si presentano solo per mangiare; quell’importante iniziativa scolastica (o parrocchiale), che grava sempre sulle spalle dei soliti noti; la bella serata con gli amici nella casa che sempre lo stesso mette a disposizione…
Esempi volutamente leggeri. Ciascuno può pensarne di più seri, come il farsi carico di assistenza familiare pesante, e chiedersi quale ruolo stia interpretando, quello del servo o quello del dritto.
E, se c’è qualcuno che serve, con una croce che ha abbracciato o che non gli può essere tolta, che la coscienza non rimanga indurita, indifferente. Anche una parola lieve, se non un grazie, o un sorriso, sarà come un balsamo.
Si, osservando, sono infinite le situazioni in cui servire i tocca, vuoi spontaneamente dettato da amore che si sacrifica, o volente o nolente il servire alla causa e per solidarietà verso un benecomune. Forse anche l’invito di un Presidente a cittadini interessati singolarmente a rivendicare rabbiosamente diritti, persuasione a non distruggere ciò che di bene si sta costruendo nell’interesse di tutto il Paese, può essere un servire, anziché stare in distanza in studio ovattato a firmare carte. Ogni persona nel suo stato se animata da buoni sentimenti diventa servo, ma forse molto di più se della Parola. Gesù Cristo era diretto a Gerusalemme, anche oggi ci sono persone che camminano avanti altri, percorrono strade calvario, sanno quanto è periglioso quel cammino, ma hanno di sicuro uno Spirito che li sostiene, come quelli che muoiono per servire, laici che fanno del loro lavoro missione per il bene che perseguono.la gratitudine a loro e a Dio per questo servizio
E voi chi credete che io sia dirà Gesù ai discepoli.
Non avevano compreso infatti ancora il mistero del servo sofferente, colui che era venuto a redimere il mondo.
Dall’alto della Croce non pronunciò che poche parole forse perchè tutto quello che era necessario sarebbe stato il corpo spezzato e il sangue versato.
Offrirsi in sacrificio fu l’inizio della liturgia che ancora noi oggi celebriamo nelle nostre chiese ma rinneghiamo con le nostre vite.