Con un piccolo salto testuale, rispetto a domenica scorsa, il vangelo di oggi ci racconta il secondo annuncio della passione. Ma qui “Il figlio dell’uomo” viene consegnato agli “uomini” (v. 31) e non più solo ai capi degli ebrei. Forse è una traccia della presa di consapevolezza graduale di Gesù, che la sua morte e resurrezione, non sia più circoscritta al popolo ebraico, ma si allarghi a tutti gli uomini. Ma come anche domenica scorsa, i discepoli non comprendono e, anzi, sembra che la distanza tra loro e Gesù aumenti, più che diminuire.
Loro, infatti, sembrano ancora preoccupati della dimensione umana della salvezza e della forma di potere che essa realizzerà. Ma stavolta, oltre a non voler accettare che Gesù muoia, sembrano preoccupati della gerarchizzazione delle loro posizioni reciproche. Il loro parlare per strada, infatti, non è un semplice “discorrere” (alla lettera v. 33), ma è una “discussione animata” (letterale v, 34). Ci si investono, quindi, e ci tengono a decidere chi sia il “maggiore” (v. 34) tra loro. In greco l’espressione è un comparativo. A dire che a loro sembra interessare dividere il potere, immaginando che l’orizzonte massimo di ciò a cui possono aspirare sia essere il più potente tra loro.
La risposta di Gesù, invece, cambia totalmente registro: “Chi vuole essere il “primo” (colui che anticipa, che sta all’inizio) sarà “ultimo” (chi sta alla fine, chi resta definitivo) di tutti e servo di tutti” (v. 35). In greco la parola “primo” non è un comparativo, ma un superlativo. Gesù, cioè, apre loro un orizzonte assoluto, che tira in ballo Ap 22,13: “Io sono il primo e l’ultimo”. Non più, perciò, solo il migliore tra di loro, ma addirittura diventare con Cristo, fondamento e termine di tutto e tutti.
Questa famosa frase di Gesù, allora non è solo e tanto una semplice inversione, che rimanderebbe ad un capovolgimento del potere, ma resterebbe sempre nella stessa dimensione solo umana. Egli, invece prospetta molto di più, indicando in quale stato di divinizzazione il discepolo possa ritrovarsi se accetta di essere come Cristo.
Il “garzone” (letterale v. 36) (non tanto il bambino quindi!) che viene messo al centro e abbracciato sta a dire che Cristo si identifica con lui, quindi essenzialmente Lui è colui che “serve” (v. 35). Ma qui non si usa il termine schiavo, bensì il servitore di un re o di un uomo potente. Il servizio che rende come Cristo, non è quello di chi si annulla semplicemente per l’altro, ma quello che sceglie liberamente di consegnarsi all’altro per il suo amore e in questo realizza al massimo sé stesso. “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo” (Gv 10, 17-18).
Solo in questa condizione riluce nel “servitore” la presenza di Cristo e lui diventa il primo e ultimo “tabernacolo” in cui Cristo si rende “visibile” oggi tra gli uomini. Questo rimanda decisamente ad una posizione del cristiano in cui la “croce” è salvifica se viene accettata e offerta nell’amore e non solo sopportata e sofferta. Il cristiano non è un masochista mascherato, ma un amante, follemente innamorato della vita. Tanto da riconoscere che la vita è fatta di servizio amorevole, non di gestione del potere.
A fronte di questo si possono fare due considerazioni.
Primo. Tutta l’organizzazione gerarchica della Chiesa ha senso e offre senso, solo se vissuta come servizio in cui le persone si sono consegnate all’amore, non ad un sistema di potere, da scalare o da mantenere. Per questo chi ha potere, nella chiesa dovrebbe mettere molta attenzione alla propria dinamica interna e vigilare molto bene sui modi con cui incarna quel ruolo. Certi stili, impositivi, formali, sfarzosi, che sembrano essere a servizio di una verità da salvare, in realtà sono evidentemente una compensazione umana di una consegna esistenziale che non è stata fatta all’amore, ma al sistema di potere, che alla fine uccide e non fa fiorire tutto l’umano di quella persona.
Secondo. Sembra difficile, a fronte di questi testi, mantenere una impostazione spirituale cristiana in cui il sacrifico e la sofferenza sono al centro della dinamica della persona. Per secoli abbiamo assistito a predicazioni in cui la salvezza della croce stava nella sofferenza di Cristo, non tanto nel suo amore. Ma senza amore nessuna sofferenza si apre alla resurrezione. Costruire delle spiritualità che fanno corti circuiti con dinamiche umane disfunzionali, non è di aiuto, né alla persona, né alla sua eventuale testimonianza di fede. L’esperienza di fede ha sempre un carattere liberatorio, che non si perde nemmeno nel dolore, altrimenti qualcosa non sta funzionando.
Desiderare, sperare, voler essere primi è un peccato di superbia legato al voler essere e al tentativo di salvare la propria vita primeggiando ma la supremazia è causa di conflitti.
Essere ultimi è essere servitori ovvero fare anziché essere oppure essere bambini ovvero figli.
Voler essere è fonte di pregiudizi mentre voler fare, essere figli di Dio e seguire il suo giudizio salvano dal peccato.
Primo. OK.
Ma ancor prima di primo:
SI DEVE VEDERE CRISTO.
Il confronto di verifica deve essere totale.
Tertium non datur!