La Bibbia e il no alla pena di morte

La Bibbia e il no alla pena di morte
7 Agosto 2018

In questi giorni papa Francesco ha approvato la “nuova redazione del n. 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica”, che concerne la pena di morte. Ovviamente non sono tardate le reazioni scandalizzate all’interno del mondo cattolico, per questa modifica della morale della Chiesa. Ritengo che su questo abbia magistralmente risposto qui (https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2018-08/dottrina-pena-morte-papa-francesco-catechismo.html) Sergio Centofanti, mostrando come la “ratio” di chi si scandalizza è spesso legata al desiderio di un “controllo” sulla verità e non, invece, di essere lasciarsi “condurre” dalla verità. Sulla scia di questa riflessione credo sia utile chiedersi quale sia la “ratio” del cambiamento operato da Francesco a proposito della pena di morte.

Per farlo, forse, è utile partire da san Pio X. Il suo catechismo, diceva che è giusto uccidere “quando si esegue per ordine dell’autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto”. Sottolineo le due motivazioni. Da una parte un ordine dell’autorità suprema. Infatti, lo stesso testo dice che uccidere è sbagliato perché: “l’uccisore si usurpa temerariamente il diritto che ha Dio solo sulla vita dell’uomo”. Perciò, se Dio questo diritto lo ha concesso alla Chiesa, essa può farlo giustamente, perché lo fa “vicariamente”, cioè esegue la volontà di Dio.

Dall’altra parte perché connessa alla “pena” per il delitto commesso. E questo spiegherebbe perché Dio possa ritenere giusta la morte del peccatore: per “espiare” il male commesso. Infatti, sempre Pio X, afferma che il peccatore deve sopportare “una pena temporale da scontarsi” come “risarcimento alla giustizia di Dio per i peccati commessi”. Come si vede tutto il ragionamento è giocato sulla base di un Dio giudice retributivo, che esige il risarcimento del danno.

Il testo del Catechismo del 1992 superava già questa impostazione, e riconosceva la pena di morte solo come “difesa della comunità umana”, possibile solo come estrema ratio, per garantire la società. Era perciò letta nella logica della legittima difesa e non più in quella della giustizia retributiva. E perciò la riteneva praticamente inapplicabile: “Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo «sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti».  (Giovanni Paolo II, Lett. Evangelium vitae, 56)”.

Francesco fa un passo in più. Non solo rispetto a San Pio X, ma anche a Giovanni Paolo II. Siccome oggi ci sono mezzi che garantiscono la difesa senza bisogno di uccidere, allora la pena di morte va ricondotta alla sua radice evangelica, in cui “la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. (…) Pertanto la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che “la pena di morte è inammissibile, perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”, e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo”.

La novità sostanziale deriva proprio da questo riferimento al vangelo. Per san Pio X la morale si strutturava a partire da una idea più filosofica di Dio che non biblica, in cui la riflessione etica si incaricava di “definire” la verità a partire da questa immagine di Dio, e la bibbia, tutt’al più, veniva usata come “pezza d’appoggio” per sostenere tesi già definite per via filosofica. Una metodologia utilizzata dalla Chiesa già da molti secoli.

Per il catechismo del 1992, la morale era definita dalla fedeltà alla tradizione della Chiesa, ma che, sulla base delle riflessioni del magistero dal vaticano II in poi, cercava di trovare strategie di adeguamento alle condizioni concrete dell’agire etico. Ciò metteva in ombra alcune note del magistero antico, senza negarle, come, in questo caso, la forte necessità di una giustizia divina retributiva, e ne sottolineava maggiormente altre, legate, ad esempio, alla legittima difesa umana.

Sembra, invece, che per Francesco la morale debba fondarsi direttamente sul testo sacro. Non preso, però, nella sua formulazione puntuale in cui la citazione di un semplice versetto può arrivare a giustificare qualsiasi cosa. Ma preso nella sua comprensione globale, in cui il vangelo di Cristo è la chiave per rileggere tutta la Bibbia, anche l’antico testamento, e in cui si riconosce la gradualità della rivelazione di Dio nel testo sacro, che lascia aperto ancora spazi di ulteriore comprensione della “verità tutta intera”. Così facendo, l’ascolto della bibbia mette capo alla definizione di alcuni principi etici essenziali. E la riflessione filosofica ed etica si incarica, solo, di dover dar corpo ad essi, in relazione alle condizioni di vita reali delle persone.

Ecco perché il principio etico che Francesco usa per negare la liceità della pena di morte è quello della dignità della persona umana, anche quando questi sia un grave peccatore, che è direttamente frutto della rivelazione biblica. E così possa uscire dalle contraddizioni di una giustizia divina retributiva, che invece, a certe condizioni, può anche negare questo principio.

Qui si coglie molto bene come il richiamo ad un etica tipo “san Pio X” sia fortemente in connessione con il lato peggiore della post – modernità, che non riconosce valore alla dignità umana, calpestabile in mille modi, anche giustificati religiosamente, e che fanno il gioco dello strapotere “tecnocratico”, che sempre più tende a cancellare il concetto di persona. Francesco sta andando da un’altra parte.

 

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