Ci si serve della Parola?

Resta l’uso “ad personam” del testo biblico, inteso come “madia” in cui poter pescare con libertà, qualsiasi passo utile a sostenere la propria posizione, convinzione e teologia, facendo dire alla bibbia ciò che si vuole.
3 Febbraio 2020

Quando alcuni anni fa, insieme ad alcuni studenti di teologia, tentammo di rintracciare esperienze pastorali innovative, che cercassero modi più efficaci di riuscire a evangelizzare questo tempo, apparse una indicazione inattesa. Su circa 60 esperienze rintracciate, non più di 6-7, pongono la Parola di Dio, al centro della loro spiritualità e del cammino di fede, mentre, le restanti puntano quasi sempre sul rapporto diretto con Gesù, specie nell’Eucarestia. Navigando sui siti di matrice tradizionale del cattolicesimo è molto molto difficile e raro, incontrare come indicazione principale, per alimentare la fede, la lettura, meditazione, confronto, con la Bibbia, mentre è sempre più centrale l’indicazione di assumere i dettami del magistero come bussola spirituale. Insegnando teologia, ultimamente mi sono letto alcune opere che mi interessavano e mi incuriosivano e, anche qui, la parte relativa alla bibbia, intesa come fonte essenziale e punto di partenza della riflessione teologica, risulta molto limitata e anche, a volte, assente.

Sono tre dati che non posso negare nella mia esperienza. E per me rappresentano i segni tangibili di una direzione che il mondo cattolico ha imboccato rispetto alla Parola di Dio: una sorta di rimessa sullo sfondo della bibbia nello spazio spirituale e pastorale, che a volte arriva ad essere talmente sullo sfondo che quasi non se ne riconosce più il “peso”. Resta solo, spesso, non sempre, l’uso “ad personam” del testo biblico, inteso come “madia” in cui poter pescare con libertà, qualsiasi passo utile a sostenere la propria posizione, convinzione e teologia, facendo dire alla bibbia ciò che si vuole.

Molti più anni fa, durante la mia formazione teologica, Mons. Catti, grande docente di catechetica, ci chiese a bruciapelo: “Nella catechesi ci si serve della Bibbia?” E ovviamente rispondemmo quasi tutti: sì. Ma lui ci bruciò con lo sguardo e rispose: “Non ci si serve della Bibbia, ma la si serve!”. E da lì capimmo come non sempre richiamarsi alla bibbia è davvero un segno di fedeltà alla bibbia. La Chiesa ha ben definito l’atteggiamento rispettoso e di ascolto profondo che deve pervadere chi si accosta al testo biblico. Oggi, negli esempi che riportavo, mi sembra che sia raro vedere una “lettura” biblica fedele alla Bibbia stessa.

La mia stessa esperienza, però, mi suggerisce anche due modalità che sembrano trovare un modo serio e fattivo di rivalutare la bibbia in rapporto al proprio cammino di fede e alla propria spiritualità. Il primo è quello “semplice” di chi accosta il testo con umile apertura e disponibilità a ricevere ciò che dalla lettura, liscia, non introdotta, non commentata, arriva al cuore e alla mente. Molti dei miei studenti, praticamente digiuni di catechesi e di “tradizione” cattolica, sono in grado di accedere spesso al testo biblico proprio in questo modo, quasi vergini in rapporto ai contenuti, ma con la disponibilità sincera a capire e comprendere. E qui spesso ci sono dei “miracoli” interpretativi, in cui, senza competenze esegetiche o studi critici, riescono a raggiungere il cuore profondo del testo solo immedesimandosi nei personaggi sulla scena, per via emozionale più che razionale. Ma purtroppo, all’interno del mondo ecclesiastico, questo stile di “lettura biblica”, viene considerato a priori “non affidabile”, troppo soggettivo, e soprattutto di poco spessore culturale.

Il secondo modo, più “colto”, ma ugualmente umile, di chi, con studio, attenzione e onestà mentale, rintraccia nella bibbia le linee di interpretazione che emergono dal testo stesso, in rapporto ai vari concetti teologici e spirituali che in essa ricerchiamo. Sono le cosiddette “teologie bibliche”, che provano a tenere insieme tutto il dato biblico su un determinato argomento, riorganizzandolo concettualmente alla luce dei criteri interpretativi che la Chiesa ha codificato. E, a partire da qui, ogni singolo versetto può trovare i limiti in cui va interpretato per non fare dire alla bibbia tutto ciò che ci interessa. Trovo, purtroppo, che in questo senso, anche alti prelati e cardinali non sempre si attengono a ciò e finiscono per scivolare nell’abitudine, da lungo tempo presente nel mondo ecclesiastico: a partire da una teologia già costruita a priori si va a trovare nella bibbia le pezze di appoggio, sperando in questo modo di sdoganare anche biblicamente ciò che biblicamente non si sostiene (ad esempio il celibato necessario dei sacerdoti).

Ho l’impressione che, solo chi ha davvero la percezione interiore di mettersi al cospetto di Dio leggendo la Bibbia, come di una persona con cui possiamo relazionarci chiamandolo “papà”, sia in grado di uscire da queste strettoie e gabbie in cui abbiamo rinchiuso la Bibbia e fare in modo che queste due forme interpretative ancora possibili, possano interagire tra loro. La lettura dei “semplici” può dare maggiormente corpo e cuore al testo, perché capace di connetterlo direttamente al vissuto di oggi; la lettura dei “colti” da maggiormente argini e direzione al senso del testo, perché ne salvaguarda le condizioni minimali per esservi fedeli. A partire da qui si possono, allora, aprire anche interpretazioni spirituali, pastorali, ed etiche del testo, ma senza “corpo” (vita reale) e senza “direzione” (studio onesto) la bibbia resta “vuota”, e ognuno rischia di riempirla come desidera.

 

 

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