Quelli che accolgono a casa loro: la nuova forma di resistenza

Associazioni, famiglie, singole persone continuano a lavorare per l'integrazione dei migranti, nonostante la totale latitanza del nostro Governo
5 Marzo 2020

Ci sono, in giro per l’Italia, associazioni, famiglie e singole persone che sono impegnate su un fronte che potremmo definire di resistenza o, per usare l’espressione usata da “Famiglia Cristiana” a proposito della Caritas di Milano, di disobbedienza civile.

È uno degli effetti collaterali (indesiderati dal legislatore) del famoso Decreto Salvini del 4 ottobre 2018, n.113 (poi convertito nella legge 132/18), a causa del quale chi aveva un permesso di soggiorno per motivi umanitari e chi aveva il permesso per protezione speciale non poteva più essere accolto nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), che faceva capo agli enti locali. E questo significava interrompere percorsi di integrazione, rigettando nell’incertezza e a volte nell’illegalità molte persone.

La loro resistenza le Caritas l’hanno annunciata subito, a gennaio 2019. E siccome sono una realtà abituata a far seguire i fatti alle parole (spesso sono le parole che seguono i fatti, in realtà), le Caritas lombarde hanno deciso di non accogliere la richiesta delle prefetture e di non allontanare le persone in questione, per  continuare, invece, i percorsi di integrazione, dentro strutture private e con fondi propri o raccolti attraverso il fund raising, quindi non pubblici. Si sono così fatte carico di 400 migranti, altrimenti esclusi: nella sola diocesi di Milano 77 persone.

Ma la resistenza civile ai decreti sicurezza passa anche per molte altre esperienze. A Bologna l’Associazione delle Famiglie Accoglienti, nata nel dicembre 2018, raccoglie una trentina di famiglie che hanno accolto ragazzi stranieri che altrimenti sarebbero caduti nell’incertezza più totale: sì, hanno proprio raccolto quell’invito – che voleva essere sprezzante – “accoglieteli in casa vostra”, con cui molti odiatori e leoni da tastiera credevano di zittire chi difende i diritti delle persone. Nel sito si definiscono così: «Samo un gruppo di cittadini che vivono da anni fianco a fianco a ragazzi di altre nazionalità, che li hanno ospitati in famiglia, in casa, che li seguono nel loro percorso di integrazione, di voglia di vivere e lavorare nel nostro Paese… siamo umani. Restiamo Umani!»

Le famiglie accoglienti di Bologna sono in rete con il Coordinamento Famiglie Accoglienti di Torino, che si è costituito a inizio 2019 e che riunisce, appunto, quelli che ospitato un migrante nella propria casa. Il progetto “Rifugio diffuso”, promosso dal Comune con l’Ufficio Pastorale Migranti, prevedeva che si accogliessero in casa propria uno o due richiedenti asilo o rifugiati, per un periodo di tempo compreso tra i 6 e i 12 mesi: l’ultimo passo verso l’autonomia. Sono state più di 200 le famiglie torinesi, che hanno partecipato al progetto negli ultimi dieci anni.

Ali (Accoglienza Libera e Integrata) è invece un’iniziativa nata a Roma, che si propone come punto di contatto tra cittadini stranieri richiedenti asilo e cittadini della capitale. Non chiede di ospitare in casa, ma di costruire relazioni: una passeggiata, un aiuto a superare un pratica burocratica, un pranzo della domenica, una chiacchierata in un bar… tutto ciò che può far nascere e sviluppare un’amicizia e alleviare la solitudine e il senso di estraneità.

Qualcosa di analogo, nell’obiettivo, a quello che fa a Parma la onlus Ciac, che con Progetto Ciac cerca di costruire legami significativi attraverso il co-housing tra studenti (Parma è città universitaria) e giovani stranieri usciti dagli Sprar e da altri progetti di accoglienza. Il progetto è nato nel 2016 e in tre anni ha ospitato più di 40 ragazzi in tre appartamenti.

È una forma di resistenza civile diffusa anche quella delle associazioni e degli enti non profit collegati alla Rete Scuole Migranti del Lazio. Una realtà con molti anni di presenza sul territorio e con un’esperienza ormai rodata: sono 92 gli enti – laici e legati alle chiese: associazioni, parrocchie, centri sociali, cooperative – che offrono corsi gratuiti per insegnare l’italiano agli stranieri. Complessivamente raccolgono, nelle 130 sedi in cui svolgono le loro attività,  più di 10 mila iscritti complessivi, riuscendo a rispondere ad una domanda estremamente articolata, per condizione e storia (c’è chi è appena arrivato, chi è Italia da tempo ma vuole migliorare la conoscenza delle nostra lingua e della nostra cultura; chi nel proprio paese è laureato e chi è analfabeta o quasi) oltre che per provenienza e cultura di appartenenza (gli studenti vengono da 147 Paesi diversi, anche se la maggioranza arriva dal Bangladesh e dal Perù).

Ho potuto citare solo alcuni esempi delle tante esperienze, che fioriscono sui territori, di resistenza alla cultura dei muri, dell’esclusione e dell’intolleranza. Una resistenza che non è solo opposizione, ma costruzione di alternative. Che ci dice che, se si vuole, trattare le persone come persone si può fare.  Che ci ricorda che l’integrazione è un investimento, per la nostra sicurezza e per la nostra crescita come comunità. Ma è necessario che, prima o poi, questa resistenza venga “vista” anche dalle nostre istituzioni e dai nostri decisori pubblici e che diventi scelta politica. Una scelta politica costruttiva, che guarda in profondità nel nostro futuro.

 

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