Talvolta i pensieri corrono senza che si riesca a darvi una chiara argomentazione o una fondazione pienamente razionale. È quanto succede, per lo meno al sottoscritto, guardando le immagini relative alla campagna di questi giorni in favore dell’eutanasia legale. Queste poche parole non vogliono convincere, giustificare o argomentare una qualche posizione. Come detto, sono pensieri che corrono e, forse, avranno la fortuna di raggiungere qualcuno.
Quello che mi lascia perplesso di tutta questa faccenda (che in effetti, non solo in Italia, è una questione quantomeno atavica) non è tanto il pericolo, intravisto da alcuni, della mania di onnipotenza propria dell’umano postmoderno, inebriato dalla tecnica o, meglio, dalla tecnologia e persuaso di poter gestire la propria vita in ogni situazione e in ogni caso. Ciò che mi lascia perplesso è questo desiderio di cercare la morte, non tanto e non solo per sé (che rivelerebbe un chiaro atteggiamento egoistico) quanto in nome dell’amore per i propri cari. Certo, perché è più facile “staccare la spina” e porre fine al tutto, invece di interrogarsi sulla situazione alla quale si pensa di dover porre rimedio. È più facile indurre la morte, letteralmente «far entrare» l’altro in essa, invece di condurre verso di essa in un percorso che, necessariamente, dev’essere fatto insieme. È più facile demandare alla morte il compito di porre fine a questa vita, piuttosto che sporcarsi le mani nella propria e nella altrui vita e, nei limiti dell’umano e del dignitoso, aiutare il “destinato a morire” a comprendere l’unicità, l’importanza e il senso che la sua vita ha, quel senso che forse la malattia ha offuscato in lui o in lei, ma che per coloro che gli/le stanno intorno e lo/la accudiscono, certo, dovrebbe continuare a brillare chiaramente. Custodire l’altro così come ci si presenta, fargli capire che la sua vita per noi non è un peso, un ostacolo, un limite, ma una concreta possibilità, che noi accogliamo, di dare alla nostra vita una forma amorosa, di donazione e di dedizione verso l’altro, è certo più difficile e impegnativo che non proclamare una forma di “amore” che poi si concretizza (cosa, a dire il vero, quantomeno bizzarra) nell’eliminazione dell’altro. Solitamente l’amore apre l’altro alla vita, non lo chiude nella morte.
Interessante, ancora, è l’insistenza sulla volontà a decidere di sé al momento ultimo ed estremo della propria vita, sbandierando con foga il motto: «La mia vita appartiene a me». Sarebbe interessante interpellare coloro che si fregiano di questo possesso e domandargli dove e quando, di preciso, hanno assunto questo diritto. Per quanto mi riguarda (qualcuno potrebbe dire, purtroppo!) non ho scelto io di vivere, di vivere in questo mondo o, meglio, in questa parte di mondo, con questa famiglia, con questo corpo, con questa istruzione… Tutto ciò che determina il mio «esserci», di heideggeriana memoria, viene da molto più lontano di quanto io possa immaginare e da parte mia non posso far altro che accoglierlo, dargli una forma, farlo mio, condividerlo, in atti e gesti concreti quotidiani, per restituirlo poi, quando sarà, a colui (o Colui) che me l’ha donato (se di un dono si tratta, e non di una condanna…). Sartre direbbe che siamo condannati ad essere liberi. Ciò significa che non l’abbiamo scelto noi; ci ritroviamo sempre pro-gettati, lanciati in questo mondo prima che possiamo deciderlo coscientemente ma soprattutto per qualcosa che sempre, alla fin dei conti, ci sfugge. È questo il compito che siamo soliti definire «libertà»: dare forma all’inimmaginabile (almeno per noi).
Tornando a noi, quindi, da dove viene questa convinzione che la vita ci appartenga quando né il suo inizio né la sua fine dipendono da noi? È curioso come proprio coloro che si battono per questo presunto “diritto di morire” siano gli stessi che affrontano «infinite battaglie» in favore dell’aborto. In quel caso, tuttavia, l’altro chiamato in causa non ha il medesimo diritto di affermare con striscioni e bandiere: «La mia vita appartiene a me», per quanto il motivo tuttora mi sfugga… Similmente trovo curioso come questa volontà di decidersi, di affermarsi si concentri tutta nel giorno ultimo dei molti (speriamo) che ci vengono offerti. Che si tratti di una sorte di compensazione a fronte di una vita, forse, vissuta a seguire le mode, gli influencer, la “maggioranza”? Una vita «fatta di scandali e cambiali», in cui i giorni trascorrono interessandosi di tutto e di tutti tranne di ciò che ci potrebbe scomodare o accusare; insomma, una vita passata a fare di tutto tranne che decidere di sé e darsi una forma, un senso, una direzione (fosse anche «ostinata e contraria»)? Dopo aver predicato una vita all’insegna del libero arbitrio, tradotto come scegliere (meglio, spiluccare) e sperimentare tutto il possibile, ecco che solo alla fine si erge imperiosa la vera libertà, quella che si traduce come: prendi in mano la tua vita (o quei pochi minuti che ne restano almeno) e decidi di te stesso. Insomma, siamo invitati a dire chi siamo, decidendo di noi, dando forma non alla nostra vita, ma alla nostra morte. «Dimmi come vuoi morire e ti dirò chi sei». L’unico inconveniente è che a quel punto, in realtà, non “ci siamo” più. Su questa decisione (o paventata almeno come tale) non è possibile costruire alcunché. Torniamo a quanto si diceva prima: questa forma di “amore” per la propria vita conduce ancora una volta alla morte, non alla vita.
Concludendo, sono forse più di “alcuni” i pensieri che corrono e le cose che mi lasciano perplesso su questo argomento. Qualcuno (giustamente) cerca di diluirne la portata esistenziale e umana annacquando la questione con tecnicismi medici, legali, fisico-biologici… Per parte mia, ignorante di larga parte dello scibile umano, penso che questa attenzione alla morte per valorizzare la vita sia semplicemente un paradosso e una contraddizione, non solo nei termini ma anche nel contenuto.
L’intenzione, dicendolo chiaramente, non è quella di una sterile critica altezzosa ma il richiamo alla necessità di un confronto serio, impegnato, profondo e a tuttotondo, in nessun modo riducibile a schiamazzi di piazza, vociare televisivo o sproloquio politico e demagogico.
Penso che riflettere e quindi decidere come vivere la vita di tutti i giorni, come valorizzare, testimoniare e custodire quell’amore che davvero è in grado di generare, su cui davvero si può costruire qualcosa (la propria vita, la propria famiglia, una civiltà, un mondo) sarebbe molto più fruttuoso e fecondo per tutti: sani e malati, viventi e morenti, bambini, giovani, adulti e anziani. Ci piace distrarci quotidianamente dalla vita (con social, serie TV, videogiochi) e tornarci, con insistenza e talvolta prepotenza, quando si tratta di discuterne l’inizio o la fine. Sarà il fascino del misterioso e del proibito (un po’ com’è successo a Cam di fronte a suo padre), ma come ci ricorda il testo biblico – oltre alla saggezza popolare e a una buona educazione – alcuni argomenti sono «suolo santo» (Es 3,5), il che non vuol dire che siano un tabù o dei luoghi preclusi (Mosè stesso, poi, è invitato ad avvicinarsi) ma significa che bisogna affrontarli con umiltà («togliti i sandali»), con disponibilità verso il mistero che lì comunque è presente e che si deve riconoscere («Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo») e soprattutto dopo aver imparato a camminare lungo i sentieri più noti e quotidiani, quelli della vita di tutti i giorni, riconoscendo in essi il valore, il senso, il «tesoro» che in realtà non abbiamo conquistato (e che quindi potremmo dire di possedere) ma che per grazia abbiamo «trovato» (Mt 13,44). Solo allora, forse, potremo parlare anche di come e di a chi lasciare questo tesoro; solo così sapremo davvero decidere di noi stessi ogni giorno (e non solo all’ultimo) con saggezza e autenticità, e, forse, ci sarà più difficile pensare (se non addirittura volere) di avere il diritto di prendere questo tesoro, nostro o altrui, e di potercene semplicemente sbarazzare.
Forse, vivere, e morire, nel dolore, ma non solo, fa ancora tanta paura.
E allora abbiamo l’accanimento terapeutico, o la richiesta di eutanasia.
La nostra vita ci appartiene, come noi apparteniamo alla Vita, è una relazione paritaria, se no parleremmo di tirannia, e non di libero arbitrio.
Relazione dettata dall’amore e dall’unione armoniosa: lavoriamo tutti per un mondo d’amore, dove nessuno venga lasciato solo nella vita come nella morte..le leggi accolgono sempre un bisogno dal basso, e se qualcuno chiede di morire, forse da qualche parte c’è stato un errore: e l’errore deriva sempre da una mancanza d’amore: una medicina senz’anima, che scambia la vIta per un respiro artificiale, o la visione per la quale tutto passa dall’apparire vincente e perfetto, e che esclude la malattia, ma anche il bisogno dell’altro, che vediamo con orgoglio come un disvalore, anziché la cosa più bella di questo mondo: prendersi “cura” gli uni degli altri..
Così come si nasce e’ la vita stessa che come fiore si apre, come uomo ha bisogno di libertà. Dio ci ha fatti simili, Lui è libero,è il Bene assoluto, l’uomo è creatura che deve imparare a saper usare del dono della libertà per realizzarlo. Noi decidiamo secondo il gr, il nostro volere, La realtà ci appare come la vediamo, è molto spesso non è quella che avremmo voluto o desiderato. Inseguiamo sogni imperfetti creduti o supposti la felicità, ma tutto un mondo ci circonda di tanti IO, che ci distraggono, facciamo errori, seguiamo vie che ci portano dove non non vorremmo essere, o non immaginavamo portassero. lLa vita ha bisogno della libertà per farne un capolavoro, il nostro, ma essendo solo creature fatte di terra abbiamo bisogno di Spirito, di ascoltare, ricorrere a quella fonte di bene che si chiama “IO SONO”, alla Sua saggezza. Chi gli ha creduto ha vissuto, e vive ancora per sempre perché è l’amore stesso che non muore
Interessante.
Io resto del parere che ogni caso è unico, ad Personam.
Troppe parole non si addicono.
Dissento sulla questione: siccome mi è stata data.. non è MIA.
x tutti: se mi regalano un’auto io sono LIBERO di sfasciarla. Ovvio!
x me: il suicidio testimonia il libero arbitrio, free will, senza discussioni.
No suicidio? No libertà di.. quindi sono un burattino.
Infine: l’ultima è stata mia sorella, un glioma che non perdona. Cosa potevo rispondere slla sua domanda ripetuta:
COSA MI ASPETTA?
A che potevano servire le belle parole di Stefano?
Forse dovevo uccidere la sua speranza di cavarsela??