Ora di religione, deserto e pregiudizi

Su un dibattito sempre un po' approssimativo sulla frequenza nelle scuole dell'ora di religione (e sulle questioni vere di cui non si aprla mai)
2 Novembre 2015

Tu quoque, professor Ossola? Mi era sfuggita la breve riflessione del noto critico letterario – che leggo sempre (ed utilizzo in classe) con passione – dedicata alla Storia delle religioni come risposta al deserto. Quale deserto? Quello rappresentato dall’ora di religione. “Aule vuote”, “forte declino”, “deserte solitudini”. Frasi ad effetto all’interno di un ragionamento comunque interessante sulla possibilità di rendere obbligatoria quest’ora a condizione di saper anteporre “gli elementi di continuità” alle “puntigliose disgiunzioni” e di affiancare il “patrimonio costitutivo, di credenze, di miti, di culti, proprio di tutte le civiltà” alla “religione cattolica” – condizioni peraltro già soddisfatte da qualsiasi insegnante di religione che voglia rispettare programmi e indicazioni nazionali attuali.

Fortunatamente, però, ho scoperto che le frasi suddette si limitano a riprendere il solito articolo che appare sul giornale ‘La Repubblica’ per annunciare lo scenario apocalittico che attende l’ora di religione. Normalmente d’estate, intorno a Ferragosto. Quest’anno in autunno. Mi piace pensare che il motivo del ritardo risieda nella campagna mediatica condotta contro Papa Francesco e il Sinodo appena concluso. Perché è evidente, agli occhi di chi insegna religione, che le iscrizioni al primo anno delle superiori, soprattutto in determinati contesti scolastici, siano sensibilmente aumentate da quando Francesco è il nuovo vescovo di Roma…

Quello che mi preoccupa a tal proposito è pensare a quanti ambiti della nostra vita comune vengano affrontati dai mass-media con tale superficialità. Apparso in una prima forma, più sobria, a livello locale e poi rilanciato, in veste più retorica, nell’edizione nazionale, l’articolo di Tiziana De Giorgio evoca “scene surrreali” dove, poeticamente, “l’eco della voce dell’insegnante rimbalza verso la cattedra, nell’aula deserta” o, al massimo, si svolgono “lezioni tête-à-tête”. Eppure le statistiche riportate sono chiare – e ben citate. Nelle scuole superiori si avvalgono il 72,8% degli studenti al Nord ed il 97% al Sud. Con una sfumatura che è già un indizio. Il dato del Nord è certo: “sono” – scrive la giornalista. Quello del Sud, improvvisamente, incertum est: “si parla” – è l’espressione che leggiamo. Insomma, sono pochi, anche se si dice siano tanti.

È veramente così? Usiamo pure il dato (proposto dalla giornalista) di almeno 27 alunni per classe alle superiori – numero, in realtà, richiesto mediamente solo per il primo anno del biennio e del triennio. Risulteranno 19-20 alunni (su 27) al Nord, 26 alunni (su 27) al Sud. La media nazionale dei non avvalentisi alle superiori, poi, è passata in venti anni – si noti, venti anni! – dal 9,7% al 18%. Anche qui, usando per convenzione il dato di 27 alunni, siamo passati mediamente da 2-3 alunni a neanche 5 alunni non avvalentisi. Aule vuote? Deserte? Forte declino? #Bah…

Ma allora anche i casi eclatanti – ed eccezionali! – esibiti dall’articolo sono funzionali ad un’ideologia. Maldestra, poiché la realtà parla di tenuta dell’ora di religione – e forse qualcosa di più se confrontiamo le percentuali suddette con quelle che rappresentano gli altri indici della secolarizzazione italiana. Snob, se non razzista, poiché questo presunto scenario apocalittico viene collegato ad alcune zone del paese (le città del Nord) rispetto ad altre (il Sud: con le sue campagne e i suoi paesini?), evidentemente considerate, con le parole di Odifreddi, le “zone più sottosviluppate e meno acculturate del paese”. Politicamente ingenua, infine, poiché invece di criticare le “inequità” della spending rewiew e di battersi per dare più diritti a coloro ai quali li hanno tolti, si preferisce toglierli anche a quei pochi che li hanno mantenuti e che, invece, potrebbero essere più intelligentemente utilizzati come mezzo per il raggiungimento del proprio giusto obiettivo (classi elementari con piccoli gruppi, classi liceali con lingua straniera mista, etc.).

In realtà, a prescindere del falso problema che si nasconde dietro la questione nominalistica ‘storia delle religioni’ o ‘religione cattolica’ (ben chiarito anni addietro da Vito Mancuso proprio su ‘La Repubblica’), si poteva scrivere decisamente un altro tipo di articolo. Altrettanto critico, volendo, ma incentrato sulla qualità dell’interesse e del profitto ottenuto (pur in assenza di voto) dagli studenti avvalentisi, sui motivi reali che spingono questi ultimi a non avvalersi più dell’ora di religione, sulla necessità di un vero concorso in ogni diocesi per l’accesso all’insegnamento della religione, insieme ad un tutoraggio iniziale e ad un aggiornamento in itinere, pena la formazione di docenti di religione non qualificati.

Ciò avrebbe significato, d’altra parte, confrontarsi con la realtà. E con gli insegnanti stessi, autorizzati allora ad esercitare il loro diritto di legittima difesa. Come hanno fatto Roberto Carnero e Andrea Monda, anche se il primo ha posizionato l’ora di religione ancora troppo indietro rispetto al suo centro, mentre il secondo già troppo oltre. Perciò, ferma restando la gratitudine rivolta ai due colleghi per la loro costante dedizione verso le problematiche dell’insegnamento – e allontanando da me ogni tentazione di recitare la parte del fuoco amico – mi chiedo: il centro dell’ora di religione è il sostegno alle altre discipline (come sembra emergere dall’articolo di Carnero)? Oppure è la risposta testimoniale alle domande di significato (come appare dall’incipit dell’intervista a Monda)?

Anche, ma non soltanto. Altrimenti si rischierebbe di restituire una fotografia sfuocata della scuola. Sono i colleghi delle altre discipline a dover conoscere e spiegare gli elementi base di cultura religiosa necessari per far comprendere ai propri alunni (anche a quelli digiuni di tale cultura) gli argomenti trattati, soprattutto nel momento in cui essi risultano influenzati dal dato religioso. E sono sempre loro che hanno il dovere di non rimuovere le ricadute esistenziali, di senso o addirittura spirituali rese possibili dagli autori affrontati. Se così non fosse, l’ora di religione finirebbe per essere solo una stampella altrui – culturale o di senso. Ma sempre e solo stampella. Dunque, da riporre prima o poi nello sgabuzzino.

È vero che oggi il docente di religione è spesso costretto a spiegare le premesse culturali religiose (e a volte anche quelle antropologiche) dei più diversi ambiti culturali. Così come è altrettanto vero che egli è spesso rimasto l’unico a trattare gli argomenti del programma anche dal punto di vista del senso esistenziale e spirituale. Ma ciò non significa che questo sia il centro della nostra disciplina. Che è, invece, teologico: un sapere, da mediare culturalmente, in modo tale che abbia senso (per l’intelletto), sia significativo (per la nostra esistenza corporea) e si mostri capace di respirare in profondità (laddove si annidano le emozioni più forti). A tal proposito avevo lanciato una proposta qualche mese fa: a livello diocesano qualcosa si è mosso, mentre a livello nazionale tutto tace…

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