«Non c’è più religione!». «Olé, così si esce un’ora prima…»

Puntuale come ogni anno sull'«Espresso» è arrivato l'articolo che legge a modo suo i dati sull'ora di religione. Ma la posta in gioco riguarda l'idea di scuola nel suo insieme
24 Novembre 2016

Ci sono segni dei tempi e segni dei tempi. Quelli evangelici e quelli mediatici. Grazie a questi ultimi riusciamo a capire in quale periodo dell’anno ci troviamo, a seconda delle polemiche ritualmente presenti sui giornali o sui media in generale.

Ci accorgiamo che è giunto l’Avvento, poiché scopriamo che il problema più urgente per la nostra intellighenzia è diventato quello di stabilire la legittimità o meno del presepe nelle scuole. Quaresima e Pasqua, invece, coincideranno con l’eclatante notizia secondo cui qualche regione avrà deliberato l’eliminazione del giovedì santo dal calendario delle vacanze pasquali. Ed abbiamo capito che stava per iniziare l’anno scolastico quando si è tornato a parlare dell’importanza del latino: ci sono undici mesi all’anno in cui del latino e del liceo non interessa a nessuno, ma quando arriva settembre viene fuori l’esimio pedagogista che è in noi per cui d’improvviso «nous sommes tutti latinisti», oppure «ma che stamo ancora a rosa rosae?».

Nel tempo Ordinario, poi, verremo a conoscenza di vescovi – del Sud (noterà il solerte giornalista) – che ancora entrano nelle scuole pubbliche per benedirle o celebrarvi messa, ovvero di vescovi – del Centro e del Nord (sempre secondo il nostro cronista d’assalto) – ai quali si impedisce di entrare nelle stesse scuole anche solo per partecipare ad incontri di dialogo interreligioso. Di recente, infine, abbiamo saputo con certezza che era tempo di festeggiare i Santi e ricordare i Morti perché puntualmente L’Espresso ha pubblicato il suo articolo autunnale sull’ora di religione – dai toni apocalittici e solenni come si conviene al kerygma da annunciare.

Secondo il noto settimanale, infatti, c’è una piccola e silenziosa rivoluzione che si sta realizzando: “l’ora di religione non interessa più”. D’altronde – ha rincarato la dose Il Foglio, non è vero che “dal 1984 in poi, ha creato più minus habentes l’ora di religione che intere annate di Amici”?  E non è forse vero che “un lassismo scolastico privo di ogni valore” ha dato vita ad uno strano doppio mostruoso? “Da una parte gli studenti che, tra uno sbadiglio e l’altro, scelgono di avvalersi (…), finendo il più delle volte per svaccarsi parlando dei ggiovani, dei problemi dei ggiovani, guardando film che parlano ai ggiovani … Dall’altra, un numero sempre più alto di studenti che non si avvalgono (…), preferendo di fatto un cazzeggio collettivo istituzionalizzato dentro e fuori la scuola”…

In realtà, l’inverosimiglianza (destrorsa) di questo “zero” in “cultura” per l’ora di religione, così come le dimensioni (sinistre) della sua “lenta e progressiva scomparsa”, sono chiare quanto i numeri sul cui senso si è già detto lo scorso anno, quando fu il quotidiano La Repubblica ad analizzare gli stessi dati sui quali si esercita ora L’Espresso e che vengono ripresi in modo acritico dal giornalista del Foglio – per la cui via “culturale” alla salvezza dell’ora di religione e al nostro “risveglio identitario” rimandiamo inoltre a quanto scritto in margine al convegno diocesano di Roma del 2015.

I numeri, infatti, o meglio l’ideologia dell’oggettività della rappresentazione quantitativa, sono solo un elemento descrittivo di una realtà veramente più complessa. Nelle scuole superiori, ad esempio, si fa notare come la percentuale degli studenti che non si avvalgono sia incredibilmente sottomedia: «ma come si permettono?» – sembra sottointeso. È evidente che questa media in controtendenza con il dato nazionale è direttamente collegata al discorso sull’inutilità del latino. Ma invece di provare ad analizzare quello che lo stesso giornalista riconosce essere un “caso interessante”, si sceglie una spiegazione tranchant: “[i licei] diventano gli istituti con gli studenti più ‘devoti'”.

Prendiamo poi un’altra percentuale indicata dall’articolo, il 18,4% di non avvalentisi nelle scuole superiori. Cosa significa? Significa che l’81,6% di studenti frequenta l’ora di religione. Ed analogamente per l’Espresso, cosa significa il calo dei propri lettori, secondo i dati Audipress, da 2.314.000 a 1.971.000 (-14,8%) tra il 2004 e il 2013 e, anche una volta modificato il metodo di rilevazione, da 1.563.000 a 1.457.000 (-6,8%) tra il 2014 e il 2016? A nostro avviso, significa che ci sono ancora quasi un milione e mezzo di persone che per fortuna si informano attraverso un settimanale di analisi dell’attualità.

Allo stesso modo, si dovrebbe evidenziare che, di fronte all’allettante e libera possibilità (scelta dal 70% dei non avvalentisi) di entrare un’ora dopo, di uscire un’ora prima o di essere muniti di un cartellino ed uscire per un’ora, l’81,6% dei ragazzi sceglie di restare in classe a sorbirsi questa pericolosa, superstiziosa e diciamolo pure noiosa ora di religione. Il che significa che se fai la scelta di rimanere (anche per studiare – sia chiaro) devi avere una forte motivazione.

Non è sufficiente affermare, quindi, che ci sono studenti che non si avvalgono dell’insegnamento della religione. Piuttosto, occorrerebbe dire che ve ne sono molti i quali, pur potendo scegliere una o più attività alternative, non si avvalgono della scuola. Questo è un problema che colleghi e genitori conoscono benissimo: ogni volta che si convoca un consiglio di classe, inizia una litania di lamentele nei confronti dei ragazzi che non sono interessati, non studiano o fanno altro durante le lezioni di qualsiasi disciplina. Così come ogni volta i docenti devono affrontare le solite domande: «A che serve studiare Dante? A che serve la storia? Una volta apprese le operazioni utili per tutti i giorni, a che serve la matematica?». L’elenco, tristemente lungo, è allora la spia di qualcosa di più profondo, ossia della tecnicizzazione della scuola: ha senso solo quello che può essere utile.

A tal proposito, ci ripetono da anni che vi è uno stretto legame tra il livello di istruzione di un paese e la sua crescita economica. Ed è per questo che ogni governo cerca di innovare il sistema scuola. Ora, però, un articolo come quello in questione – che dovrebbe informare e formare l’opinione pubblica – ricorda molto da vicino il comportamento di quelle imprese miopi nelle quali, invece di investire in ricerca per risolvere nel lungo periodo evidenti problemi strutturali, si compilano, con uno sguardo di breve periodo, relazioni volte a sostenere che questi problemi non esistono se non in settori marginali che possono essere serenamente tagliati per il bene dell’azienda. Quando invece sono proprio quei settori che, insieme al vantaggio di rendere evidenti tali problemi, potrebbero offrirne anche alcune soluzioni utili a far ripartire la crescita del sistema.

Crediamo, infatti, che l’ora di religione sia uno dei campi in cui si sta giocando una partita politica molto importante. E non è la classica storia dell’ingerenza della chiesa cattolica nello stato italiano. È, invece, la partita della trasformazione della scuola italiana a misura di esigenze tecnocratiche ed economiche, tutt’altro che liberali, e che si fondono in maniera naturale con quelle politiche che, negli ultimi vent’anni, hanno mirato al sistematico smantellamento dello stato sociale, del mondo del lavoro, della sanità, spesso partendo da reali inefficienze ma senza intervenire realmente su alcune decisive concause (evasione, corruzione, false dichiarazioni, etc.).

Legge 107, alternanza scuola-lavoro, piano di formazione obbligatoria dei docenti italiani – in cui “appare del tutto assente la previsione di una formazione di tipo culturale relativa alle diverse discipline”, interpretazione riduzionista se non distorta delle competenze, marginalizzazione delle discipline umanistiche – con eliminazione del Diritto – e tecnicizzazione delle discipline scientifiche sono tutti segnali di una volontà pervicace di eliminare la dimensione critica ed emancipativa della cultura su cui si fonda la scuola pubblica – statale e paritaria.

Non si va a scuola solo per imparare qualcosa, ma perché, proprio negli anni della formazione personale, la crescita non sia ridotta semplicemente a quella fisica e biologica, ma venga integrata in tutte le sue dimensioni (affettiva, intellettuale e – perché no? – spirituale). La scuola mira alla formazione di un pensiero critico che possa permettere allo studente di farsi carico del bagaglio tecnico e culturale in cui è immerso, per poterlo poi declinare rispetto alla propria vita e alla vita civile, culturale e politica in cui è inserito. Ma questo pensiero critico richiede impegno, serietà (da non scambiare per tristezza musona), fedeltà ai propri impegni ed autenticità. Esso, quindi, non può non scontrarsi con quella semplificazione e disneyficazione della società contemporanea che tende a mantenere lo studente in una logica binaria (pro o contro) priva di analitica, riducendo le sue capacità espressive a semplici fonemi estemporanei: «Cos’è la biodiversità? » – chiese una volta il docente di italiano. La risposta di uno studente fu: «Le api…».

In un periodo dominato da una surreale discussione ideologica sul referendum costituzionale, la vera resistenza si gioca allora sui tavoli dell’istruzione, del lavoro e delle politiche economiche. L’annuale attacco all’ora di religione non è più solo ideologico, bensì costituisce una vera e propria aggressione ad un’idea di scuola che si vuole cambiare iniziando da quell’elemento che, nonostante i numeri, viene fatto passare per l’anello debole della catena. Ma è solo questione di tempo. Si inizia con la religione. Prima o poi toccherà anche agli altri…

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