I poveri sono terribili

I poveri sono terribili
10 Marzo 2016

Lo avevo sentito dire. Adesso lo so per esperienza.

Roma. Mensa Caritas di via Casilina Vecchia. Con 30 studenti di due classi terze siamo a fare servizio per tre sere a circa 150 tra barboni, relitti umani e feriti della vita. In maggioranza italiani e maschi, nuovi e vecchi poveri. Di qualcuno quasi si fatica a capire che siano così poveri da venire qui. Ma è così. E’ la prima sera. A servire i secondi c’è Sonia, una ragazza dolce e tenera, un po’ “mammina”. Sebastiano invece è un signore sulla 50ina, pelle bruciata dal freddo e da anni di strada. Ha appena fatto la doccia nell’attiguo dormitorio per l’emergenza freddo. Lo sguardo è duro, come dura è diventata la sua vita da quando anni fa ha perso il lavoro e con questo l’unico filo che lo legava ad una esistenza “normale”. Senza parenti, senza figli, senza nessuno. E’ arrabbiato, si vede.

Sonia gli mette nel piatto la cotoletta impanata. Sebastiano la guarda e poi sbotta: “Ma cosa è sta roba? Ma tu daresti sta roba da mangiare a tuo figlio?” Lei si impietrisce, arrossa, cerca disperata lo sguardo di qualcuno che le dica cosa fare. Incrocia il mio. Le faccio cenno di stare tranquilla. Mi avvicino e dico a Sebastiano: “E’ la regola, lo sai. Se alla fine ne resta puoi tornare, ma per ora no”. Ributta il piatto sulla mensola di vetro e si avvia la tavolo solo con il primo. Guardo Sonia e le dico: “Non ti preoccupare, va bene così”. Sara, responsabile Caritas della mensa, ci aveva catechizzato all’inizio: “Un solo pezzo, se resta faranno il bis dopo”. Lo capisco. Bisogna tenere sulle regole, se no ti travolgono.

La seconda sera Lucia, dalla parola facile, comunicativa ed empatica mi dice: “Prof. voglio stare io in sala. Ieri sera mi è piaciuto”. E’ il ruolo che maggiormente espone al rapporto diretto con le persone che vengono a mensa. Dopo un po’ esce dalla porta di fondo e si siede accanto a Joel, un ragazzo di colore che se ne sta fuori e non entra a mensa. Disegna e fuma; non parla con nessuno. Gli operatori Caritas sanno solo che è del Mali. Non ha risposto nemmeno al colloquio necessario per l’accesso alla mensa.

Lucia lo saluta. Lui non risponde. Lei si siede accanto a lui e commenta il disegno di Joel. Nessuna risposta. Allora prende una sigaretta e la offre a Joel. Arresta il disegno, la guarda, sorride e accetta. Lucia sorride, prende un foglio e comincia a disegnare pure lei. Fanno grafica pubblicitaria, perciò se la cava. Dopo un po’ Joel le scrive in francese sul foglio: J’aime votre design, il est agréable. E lei risponde scrivendo su quello di Joel : Mercì. Così attraverso Lucia scopro che Joel vuole studiare e diventare un pittore, che non ha nessuno qui, che non si fida di nessuno che sia dentro a qualche istituzione, specie se legate ai governi. Le dico: “Che bella cosa che sei riuscita a fare, dillo con Sara, credo che sia utile che qui lo sappiano”.

Poi la sera, dopo aver fatto servizio, abbiamo tempo ibero. Così gironzoliamo sul lungo Tevere tra ponte Sant’Angelo e Trastevere. Dopo aver visto alcuni topi gozzovigliare sulla riva, all’improvviso una ragazza mi dice: “prof. guardi!” Butto l’occhio e in mezzo alla carreggiata opposta, steso per terra, c’è un barbone che si lamenta tenendosi la pancia. Io, la mia collega di Lettere e tre studenti attraversiamo. E ci rendiamo conto. Bevuto, con un occhio nero e in stato confusionale. Chiamo l’ambulanza mentre la mia collega e i ragazzi cercano di segnalare alla macchine il pericolo.

“Ehi, che succede?” gli dico. “Ecchè voi che succede!! So 5 giorni che no magno! Sto a morì!” La sua voce esce dura e feroce. “Capisco – rispondo con calma – ho chiamato l’ambulanza”. “Noooo… macchè stai a fa! Nu cce vado. So ‘scito ora!! Guarda!” – mentre mi mostra il cerotto sul braccio con l’ovatta. Lo dice con rabbia mentre cerca di rialzarsi. Lo aiuto, mi afferra la mano e quasi mi tira giù. In qualche modo si mette in piedi e riattacca in tono arrogante: “Sete solo boni a dì parole. Ma no se magna con le parole. Nessuno, dico nessuno che ti da niente”. Ribatto: “Capisco che all’ospedale non ti diano da mangiare ma se vai ai centri della Caritas sì” “Ma n’dove?? Ma nu n’è vero!”. “Ti dico di sì, via Marsala, via Casilina, puoi provare”. “Oh, lassame perdere, – ribatte alzando un braccio a mala pena – lassame perdere. Ho fatto 20 anni di pugilato, meglio per te, lassame perdere e falla finita co ste’ balle”. Poi si volta verso la mia collega e con ferocia le grida: “E che te ridi te!! Che te ridi, me stai a piglia per culo??” “Ehi stai calmo – ribatto – siamo qui per aiutarti e lei è con me, perciò tranquillo”. “Ma quale aiuto! Sei solo bono di chiamare l’ambulanza, quale aiuto! Io se non magno moro, lo stai a capì?!” In qualche modo escono un po’ di euro. Lui li prende sempre con ferocia se ne va verso piazza Trilussa. E ovviamente se li beve!

Lo avevo sentito dire da Don Oreste Benzi, fondatore della comunità Papa Giovanni XXII. Adesso lo so per esperienza: i poveri sono terribili. Perché spesso, in fondo pensano che non si meritano di essere aiutati. E fanno pagare a noi la rabbia prodotta da altri. E così ci stanano dalla nostra falsa e ipocrita carità, quella che vuole lavarsi la coscienza senza cambiare vita. La verità è che per prendersi cura della loro vita dovremmo cambiare la nostra. I poveri sono terribili, perché se li incontri impari chi sei. Lucia, prima di partire da Roma mi ha detto: “Prof. rimarrei qua, sul serio”. Stavolta la lezione è per me. Grazie.

 

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