C’è un grande roccione alla fine del fondovalle. Un roccione al lato del sentiero che porta su in alto, verso i casolari del Guardiaparco, verso i rifugi e i bivacchi in quota. È un roccione scuro, immerso ormai in una vegetazione foltissima di larici. Normalmente gli escursionisti sul sentiero non notano nulla e proseguono oltre senza accorgersi che, sulla roccia levigata, c’è un’iscrizione risalente al 1866.
– “Glacier”- hanno scritto due particolari personaggi. Uno era un abate, appassionato scienziato e l’altro un esploratore genovese, curioso ed eclettico. Entrambi esperti alpinisti, che incisero nella roccia, a circa 2000 metri, il livello del ghiacciaio in quell’inizio della seconda metà del XIX secolo.
È una testimonianza che mi ha sempre colpito moltissimo.
Mio padre, fin da piccolissimi, ci ha sempre portato a camminare in montagna, d’inverno sull’Appennino Ligure tra i boschi di castagni ed in estate in Valle d’Aosta ai piedi del Gran Paradiso.
Quella incisione nella roccia è proprio lì, sotto il maestoso anfiteatro del massiccio del Gran Paradiso. Papà, attentissimo alpinista, ci guidava facendoci vedere ogni cosa intorno, insegnandoci i nomi di tutto ciò che incontravamo, fiori, piante, animali …e le vette lassù, quelle che lui ad una ad una aveva scalato. Conosceva ogni segreto di quella valle, di quei monti, di quei ghiacciai imponenti che noi bambini guardavamo dal basso, con un misto tra paura, ammirazione, desiderio di avvicinarci e rispetto. Camminando, lui ci raccontava le avventure vissute su quelle nevi, tra seraccate e crepacci, in cordata coi suoi amici più cari, a volte anche con la mamma.
Ma le sue parole sul ghiacciaio erano particolari: erano come se si riferissero ad una persona, ad un qualcosa di vivo, con una sua anima, una sua lunga storia. Per questo, ogni volta che percorrevamo quel sentiero ci faceva fermare sotto quella iscrizione. Era un po’ come farci partecipi di quel cammino in ritirata che il Signor Ghiacciaio stava lentamente facendo. Come se ci insegnasse a leggere quel testo antico e sacro che il ghiacciaio stava scrivendo. Quante domande facevamo camminando dietro a papà. Lui aveva sempre risposte per ciascuno di noi.
Ma poi, salendo, ci zittiva.
Ci insegnava che il respiro doveva solo coordinarsi col passo e che le parole dovevano stare dentro. Servivano solo gli occhi e le orecchie per vedere e sentire tutta quella bellezza.
“La montagna è come una chiesa” ci disse un giorno che forse schiamazzavamo troppo.
Non ho mai scordato quel momento. Lo disse con un misto di rimprovero e di preghiera insieme. Ricordo quel tono quasi commosso di papà… e soprattutto noi, anche se bambini, ne percepimmo perfettamente l’intensità.
Quella frase mi risuona in testa da allora, immensa nella sua verità. E’ come se l’avessi dentro ogni volta che cammino in montagna, dove tutto si fa lode e preghiera. Tutto è gratitudine e tutto riporta a Lui.
L’altra sera, davanti alla tragedia della Marmolada, ho risentito quella frase di papà.
Ne ho sentito la medesima forza, la portata di Fede e il dolore profondo.
Dolore disarmato, ma Dolore affidato.
Ho rivisto il Signor Ghiacciaio, vivo, vivissimo. L’ho rivisto nel suo enorme ventre nascosto. L’ho sentito piangere nel suo sfracellarsi a valle, l’ho sentito urlare nello staccarsi dalla sua roccia amica e fidata per tanti secoli. Ghiaccio non più ghiaccio. Ghiaccio che si scioglie in lacrime.
L’uomo che saliva, che desiderava la vetta, che affidava i suoi passi a quella neve in bilico è ora inghiottito da una montagna che è, e sarà ancora, in qualche modo la sua chiesa. Voglio pensare a qualcosa di sacro anche in una tragedia di così grande portata. Non riesco a vederci colpe, imprudenze o catastrofiche cause legate unicamente al clima.
Da sempre la montagna “vive”.
L’uomo non può stare dentro ad un creato immobile, sempre prevedibile e certo. No.
L’uomo non ne è il padrone.
L’uomo ne è parte e custode.
Piccolissima parte. Piccolissima come mi sentivo io con i miei fratelli ai piedi di quei ghiacciai arroccati, silenti ed imponenti.
Piccolissimo Uomo.
Ogni estate ritorno in quella vallata, su quei sentieri ben tracciati che ormai potrei percorrere ad occhi chiusi. Ogni estate ritrovo quel roccione con la scritta. La guardo e mi rendo conto di quanto lontano ormai sia il Signor Ghiacciaio. Da lì, non lo vedi quasi. Non spunta neanche più il fronte grigio-azzurro. E’ troppo in alto ormai, troppo ritirato. In cinquant’anni è evidentissimo, non solo confrontando vecchie fotografie…
Ma ne sento comunque la potenza. Immutata potenza. La sento nell’aria diversa che ti spinge giù dai canaloni, un soffio gelido, unico, tagliente. La sento nell’acqua che sgorga sotto ogni pietraia, che smuove antiche morene e genera muschi rigogliosi. La sento nei salti di cascate, nella luce prepotente del mattino e della sera, in quel rosa che si mischia al cielo e che diventa la volta della cattedrale più bella.
È come un anziano, il mio Signor Ghiacciaio. Un anziano bellissimo, nelle sue rugosità, nel suo rattrappirsi sotto il peso degli anni.
Un anziano che custodisce moltissimo.
Un anziano che va rispettato, curato e protetto.
Un anziano che va ascoltato ancòra ed ancòra…
E come ogni anziano sa custodire tutto, soprattutto gli immensi dolori, li sa lentamente lenire, li accarezza delicato e li rende sacri.
Sacri, come la montagna di papà.
Sacre come tutte le vite che il Ghiacciaio della Marmolada ha portato via con sé.
L’altro gg ero un po’ giù di corda e sono uscito, qui a Monterosso di BG, sono andato sotto due faggi secolari, li ho accarezzati, abbracciati ed ho parlato un po’ con loro..
Pace, serenità, coraggio, sprone..
Un racconto intenso. Profondo. Parole che narrano il respiro antico di un ghiacciaio visto dagli occhi di bimbi che poi diventano adulti, ma non cambiano le meraviglie apprese; non dimenticano gli insegnamenti del papà. Padre che ha capito cos’è la montagna e cosa sono le sue rughe; cosa sono i suoi capelli bianchi, ossia i ghiacciai. Un racconto emozionante. Un rispetto per la montagna che tutti dovremmo avere e trasmettere ai più giovani come quel papà. Imparare a leggere la Natura, a salvaguardarla sempre come senza dubbi va protetto tutto il Creato.
L’uomo, parte e custode del creato, citando parole tue, Lella, potrà fermare la sua corsa; fermandosi, pensare e pensando fare un passo indietro, manifestando così quel rispetto verso il sacro che abita.
Nominare Marmolada e come riferirsi a una madre di tante cime. Colpisce dunque che anche a lei sia capitato un cedimento a fragilita, Per chi ama la montagna anche se limitata alle passeggiate amene tra i boschi, è esperienza impressionante vedere, come mi è capitato di ritorno da una escursione vedere cosa resta se dalla montagna si frana una sua parte, come una ferita rossastra, così come il blu nel ghiacciaio. Peggio ancora quando una specie di tornado ha atterrato una vasta area di pini, come vedere un cimitero su cui piangere. Perfino vi è cenno nelle sacre scritture, oggi si assiste a qualcosa che, anche se non sarà la prima volta nella natura, si prova profondo dispiacere, ci tocca l’animo; scontato, il pensare la natura in armonica esistenza,: il succedersi delle stagioni, il clima prevedibile, e godibile. E’ triste e fa rabbia che ci si ostini da ciechi e stolti presumere di poter ricostruire, ricoltivare.ciò che si è distrutto, che va aggravando anche a da guerre!