La storia del giovane uomo di Vasto, che uccide il ragazzo che in un incidente stradale aveva ucciso sua moglie, è di quelle che non dimenticheremo facilmente. Almeno lo spero.
Non mi interessa qui analizzare le ragioni e i torti dell’uno o dell’altro, ma dopo aver letto che si era creato un clima di rabbia contro il ragazzo e un desiderio di vendetta che sembrava diffuso tra gli abitanti della città – non tra tutti, certo, ma tra molti – ho pensato che, in fondo, il problema non riguarda solo le singole persone, né solo le famiglie o gli amici: riguarda tutta la comunità. Comunità dei cittadini (che città siamo? cosa condividiamo oltre ai luoghi?) e comunità dei credenti (che senso ha vivere insieme la fede, in un territorio concreto, in un momento preciso della storia?).
Un ragazzo che, per una distrazione, causa la morte di una giovane donna; un giovane marito che non si dà pace; le famiglie sconvolte… fatti come questi creano ferite insanabili nel tessuto delle relazioni. Ammesso (e temo non concesso) che la giustizia potesse arrivare a un verdetto più rapidamente, l’esperienza ci dice che le parti, che si trovano sui margini opposti della ferita, non si sarebbero comunque pacificate. Da una parte c’è sempre chi dice che giustizia non è stata fatta, che le pene sono troppo miti (il ragazzo non aveva né bevuto né aveva assunto droghe né andava a velocità troppo alta, non sembrano quindi esserci aggravanti), dall’altra chi, più sommessamente, difende la persona sotto processo, ricordando che in fondo era per bene e che la giustizia deve fare il suo corso.
E in effetti così è, ma c’è un’altra forma di giustizia che si può attivare, parallelamente, e che solo una comunità coesa e capace di pensare positivo può mettere in campo.
È quel processo di mediazione che da una parte aiuta la famiglia della vittima ad affrontare la tragedia, il lutto, il dolore, e dall’altra parte aiuta il colpevole – prima che anch’esso diventi vittima, come in questo caso, dell’odio di chi condanna a priori e poi della vendetta – a prendere coscienza di quello che ha fatto, a pentirsi, ad affrontare consapevolmente le conseguenze del proprio comportamento.
La giustizia dei tribunali non può, per sua natura, risarcire le vittime, se non economicamente. Non può riparare al danno fatto. La mediazione può almeno in parte riparare la lacerazione, lenire le ferite. Succede che, per questa via, si arrivi – con il tempo, con la fatica – alla riconciliazione, al perdono. Succede quando la comunità accompagna i suoi membri in quel difficilissimo cammino che è l’attraversamento del dolore. Rimuovere il dolore, infatti, lasciare aperte le ferite, non è solo inutile, ma dannoso: fa crescere la spirale dell’odio, impedisce la pace.
Chi può sostenere questi processi di mediazione? Chi oggi è capace di riconciliare? Persone competenti, certo, ma che stanno dentro comunità degne di questo nome. Che cercano la giustizia e non il giustizialismo; che si prendono cura dei propri membri, e non godono nell’infliggere pene. Che insieme sanno soffrire, e insieme sanno superare il dolore. Le nostre comunità lo sono? Le comunità dei credenti sanno esercitare la profezia della riconciliazione?