L’autonomia differenziata è uno di quei temi che assumono una sorta di perenne attualità alla quale non corrisponde un’adeguata riflessione da parte dei cittadini spesso distanti, e finanche ignari, delle conseguenze della piena attuazione dello stesso. La questione connessa alla richiesta di maggiore autonomia da parte delle regioni apre ad una serie di tematiche connesse alla salvaguardia dell’interesse nazionale all’interno di un Paese già pesantemente differenziato nella capacità di produrre benessere e sviluppo per i cittadini. In questo scenario, oltre a criticare ogni iniziativa legislativa volta a istituzionalizzare i divari presenti nelle varie aree territoriali, occorre avanzare qualche idea a partire dalla sussidiarietà verticale e orizzontale che emerge fra i più importanti valori costituzionali.
Di certo il dibattito sul regionalismo differenziato non è nuovo. È un tema congiunto all’organizzazione del nostro Stato poiché riguarda la distribuzione dei compiti dei diversi livelli di governo territoriale chiamati ad avere una visione unitaria. Da anni alcune regioni chiedono forme e condizioni particolari di autonomia avanzata alla luce dell’articolo 116 comma 3 della costituzione. Questa richiesta nasce dal tentativo di completare il disegno regionalista avviato nel 1970. Ora, l’idea di affidare alle regioni le diverse competenze (lavoro, welfare, istruzione, sanità ecc.) implica una profonda revisione dell’organizzazione istituzionale della nostra nazione poiché si tratta di trasferire le funzioni agli enti locali invitati a potenziare la loro capacità di coordinamento. In simile processo di profonda trasformazione istituzionale non possiamo ignorare lo storico divario in termini di sviluppo generale fra Nord e Sud Italia congiunto al principio della salvaguardia dell’interesse nazionale sancito dalla nostra costituzione.
Da questa analisi deduciamo che la piena attuazione dell’autonomia differenziata implica aspetti di carattere istituzionale e finanziario. Tuttavia, secondo diversi osservatori e studiosi, il problema principale è legato alla riforma dello Stato che deriverebbe dalla realizzazione del regionalismo differenziato. Una riforma che spingerebbe il nostro Paese verso modelli federali come quelli delineati nel sistema francese e tedesco. In tale assetto, lo Stato è chiamato ad assicurare che le regioni svolgano correttamente le funzioni concesse. Ciò, al momento, in Italia non è possibile poiché mancano strategie economiche, politiche e sociali in grado di rispondere alla situazione di crisi e di superare il divario tra aree sviluppate e zone arretrate del Paese. Pertanto, in primo luogo siamo invitati a superare simili criticità per poi volgerci verso disegni istituzionali come quello del regionalismo differenziato.
Va precisato che la contrarietà all’autonomismo differenziato non assume carattere ideologico bensì pratico-funzionale. È opportuno aumentare l’autonomia degli enti locali – come suggerisce la sussidiarietà verticale tracciata nella carta costituzionale – qualora questi siano in grado di amministrare le competenze riconosciute con maggiore efficacia ed efficienza rispetto a quanto avviene con l’odierno sistema. Infatti il responso sarebbe favorevole soltanto se la gestione decentrata risultasse utile, meno costosa e non contraria al dettato costituzionale. In altri termini non è più tempo di discutere ideologicamente se all’Italia serva o meno l’autonomia anche perché gli studi a livello internazionale dimostrano che non ci sia nesso fra regionalismo e maggiore efficacia ed efficienza. Allora, una volta sgombrato il campo dagli approcci ideologici, siamo invitati ad avviare un dibattito serio sulla riforma istituzionale purché non si indeboliscano ancor di più quei territori contraddistinti dal sottosviluppo economico e sociale. Già adesso, senza autonomia differenziata, perdiamo capacità competitiva all’interno del Paese e all’esterno nei confronti dell’Unione Europea e del resto del mondo globalizzato. Così la richiesta di maggiore autonomia risuona come problematica perché esiste nel Mezzogiorno una cittadinanza limitata che quel tipo di autonomia andrebbe ad accrescere.
Mercoledì 19 giugno la Camera dei deputati ha definitivamente approvato il disegno di legge 615 sulla cosiddetta “autonomia differenziata” che stabilisce le norme e il percorso con il quale le regioni potranno chiedere allo Stato centrale maggiore autonomia nella gestione di specifiche materie. Alla luce di quanto riportato sinora, l’iniziativa legislativa – resa possibile dalla riforma del titolo V della nostra Costituzione portata a termine nel 2001 dal governo di centrosinistra guidato da Giuliano Amato – istituzionalizza gli enormi divari presenti fra le diverse regioni italiani e, pertanto, delinea più una forma di “sovranità regionale” che un percorso verso l’autonomia differenziata. L’approvazione del progetto di legge attribuito a Calderoli rappresenta un duro colpo per l’unità nazionale perché sancisce e rischia di amplificare le diseguaglianze regionali rendendo nei fatti impossibile ogni tentativo di applicazione del principio di uguaglianza dei cittadini.
La critica all’autonomia differenziata voluta dal governo targato Giorgia Meloni non implica l’impossibilità di discutere sulla maggiore autonomia degli enti locali. Anzi, l’analisi al progetto governativo dovrebbe indurci a ipotizzare un regionalismo basato sulla consapevolezza che le istituzioni a qualsiasi livello devono supplire alle mancanze delle comunità senza togliere la possibilità alle stesse di provvedere in modo autonomo ai loro bisogni. Ciò significa non interferire nella vita interna di un ente inferiore ma sostenerlo in caso di necessità. Così la sussidiarietà – nel valorizzare le persone, i territori e le istituzioni in una logica di coesione e di solidarietà nazionale – è il giusto mezzo per ripensare l’autonomismo in Italia.
In quest’opera di ripensamento potremmo rifarci al pensiero di Luigi Sturzo per il quale occorreva rafforzare le autonomie locali a partire dagli enti comunali anche se ciò doveva avvenire in un rapporto continuo con l’autorità statale. Il sacerdote siciliano sosteneva che dinanzi all’aumento dei poteri locali occorreva una maggiore democrazia, un maggiore rispetto degli interessi collettivi al fine di evitare rischi sulla compagine nazionale e un maggiore rispetto della legalità da parte degli amministratori. Così secondo Sturzo l’autonomia territoriale è degna di questo nome quando amministra meglio del governo centrale e non quando crea divisioni e sperequazioni fra i territori. In questa visione i comuni, le provincie e le regioni possono avere un’autonomia propria ma mai dovranno pensarsi come unità politiche indipendenti dallo Stato. La grande intuizione sturziana sta nel fatto che il regionalismo non nasce come forma di decentramento ma come risposta al centralismo istituzionale e al separatismo siciliano. Si tratta di una via mediana per la quale le regioni e lo Stato centrale sono chiamati a cooperare fra loro alla ricerca degli obiettivi comuni. Non si tratta di enti concorrenti ma di istituzioni capaci di relazioni virtuose cioè sussidiarie. Qui emerge la più profonda convinzione sturziana quella secondo la quale il regionalismo e lo spirito nazionale devono convivere e svilupparsi per la democrazia. Quest’ultima dunque è il collante per assicurare al Paese la pluralità e l’unità.