Non so perchè l’ho fatto

Non si fermerà qui, purtroppo. Perché uccidere e non sapere dire perché non è qualcosa di anomalo oggi.
25 Settembre 2024

Chiavari. Prima Traversetolo. Prima ancora Paderno Dugnano. Fra un po’ qualche altro piccolo paese sconosciuto. Non si fermerà qui, purtroppo. Perché la possibilità di uccidere famigliari (nonni, genitori, fratelli, figli) e non sapere dire perché non è, purtroppo, qualcosa di anomalo nel contesto in cui viviamo.

Qualche anno fa, la mia preside di allora, applicava le norme sulla sospensione scolastica degli studenti in modo molto preciso. Perciò, quando, all’ennesimo atto anti sociale di un mio studente, dato che si decise per la sospensione, lei convocò il consiglio di classe al completo (quindi anche i rappresentanti dei genitori e degli studenti), dispose le sedie a semicerchio e mise il ragazzo al centro del semicerchio, iniziando quello che la legge prevede: un mini interrogatorio in cui il ragazzo deve dare ragione di ciò che ha fatto, mostrare di essere consapevole del danno procurato e impegnarsi a cambiare atteggiamento.

Perciò la preside se ne uscì con grande enfasi con queste parole: “adesso ci spieghi perché lo hai fatto”. Il ragazzo la guardò attonito, come se fosse la prima volta che questa domanda entrava dentro di sé e se ne uscì, un po’ spaesato con un laconico: “non lo so”. La preside riprese, con ancora più determinazione: “senti non siamo qui a perder del tempo, dicci subito perché lo hai fatto, altrimenti la sanzione sarà ancora maggiore!” Il ragazzo si strinse nelle spalle impotente e ripeté, stavolta con stupore: “Io non lo so”.

La preside si alzò dalla sedia e facendo un passo verso il ragazzo disse urlando: “Non mi prendere in giro, non sono nata ieri, tu sai benissimo perché lo hai fatto e non ce lo vuoi dire. Capisci che stai peggiorando la tua situazione!?” Il gelo scese sull’aula. Lui la guardò fissa per un attimo è iniziò a contrarre il suo volto e il suo corpo per difendersi da quell’aggressività, ripetendo a bassa voce e lo sguardo a terra: “Non è che non voglio dirlo, io proprio non lo so perché l’ho fatto”. La preside restò in silenzio per qualche secondo e poi, con tono inquisitorio, se possibile ancora più aggressiva: “Senti, tu vuoi farmi credere che un ragazzo di 15 anni, di normali capacità, come dicono i tuoi insegnanti, non sa perché ha fatto una cosa del genere??”

Il ragazzo, travolto dall’impeto della preside iniziò a piangere e mentre le lacrime scendevano lungo la sua faccia disse: “Fate quello che volete, ma io non so rispondervi: non so perché l’ho fatto, mi è venuto così!”. A questo punto mi permisi di intervenire e dissi: “Preside, forse lui sta dicendo davvero quello che sente, anche per me è difficile comprendere che non sia in grado di dare una spiegazione, ma questa è la realtà. Non serve torturalo ancora!”. Arrivarono comunque quindici giorni di sospensione. Ma poi, rientrato, ricominciò col suo atteggiamento antisociale.

Da allora ho l’impressione netta che questo modo di vivere dei nostri giovani, in cui il sentire, l’agire e il pensare sono “separati in casa” si sia allargato sempre di più. Pensano una cosa, ne sentono un’altra e ne fanno una terza ancora diversa: non riescono più ad ascoltarsi con sufficienza nelle loro dimensioni emozionali, in cui spesso sono quasi analfabeti, e in quelle istintive, che finiscono per imporsi loro senza che ne conoscano un motivo e al di là della loro volontà. Sentono moltissime emozioni, e vivono pochi sentimenti; agiscono spesso i loro istinti e solo dopo, a volte, riescono a riflettere su ciò che hanno fatto.

Forse è da qui che bisogna partire per comprendere, se possibile, cosa sta succedendo. L’ipotesi che io faccio è che questa condizione antropologica sia qualcosa di strutturale. Da almeno 30 anni, abbiamo iniziato a vivere, specie in occidente, una condizione sociale e culturale che promuove due direzioni: da un lato il lento e progressivo taglio dei canali che collegano razionalità, emotività ed istintività, non solo per gli adolescenti, ma anche per gli adulti; dall’altro l’azzeramento quasi del senso del tempo, per cui il presente è l’unica possibilità di vita che abbiamo, mentre il passato è spesso un rimpianto e il futuro ci angoscia. Anche se forse ciò avviene senza intenzione, però queste due tendenze producono effetti devastanti, in cui diventa possibile quello che abbiamo visto a Paderno Dugnano, a Traversetolo e a Chiavari.

Questo non dice nulla, ovviamente, sulle ragioni personali che hanno prodotto questi tre drammi, che sicuramente ci sono. Dice solo che chi compie questi atti, non sa darne sufficienti motivazioni. In questi casi di cronaca, molti hanno sottolineato il fatto che il contesto affettivo in cui vivevano gli autori dei delitti sembrava normale e buono.

Ma forse, anche qui, si dà per scontato che se un genitore o un adulto ci ama, quell’amore sia davvero in grado di raggiungere il nostro essere profondo e provocare quel contatto, quel “toccarsi dentro” che è l’essenza dell’affetto e dell’amore umano. Se chi dovrebbe sentirsi amato non è abbastanza in contatto con sé stesso, è frammentato dentro e non sente di poter avere un futuro sensato, per cui il tempo è reale e lo spazio è virtuale, nessun amore può raggiungerlo sufficientemente, se non si cerca, prima, di aiutare la persona a ricucirsi dentro e a riprogettarsi. Se questo non avviene ansia, depressione, rabbia, aggressività sono dietro l’angolo.

E qui, purtroppo, si deve riconoscere che questa generazione non trova sufficienti “adulti” capaci di “vedere” questa condizione interiore, di trovare il modo giusto per accompagnarsi al loro dolore invisibile, e poter lentamente mostrare loro che quel dolore può essere corretto, nel senso originario della parola: co-retto, retto insieme, portato assieme, condiviso, senza che l’adulto si faccia “spostare” emotivamente da quel dolore, ma anche senza restarne estraneo.

Purtroppo questa è una “falla” educativa molto diffusa oggi, dove gli estremi sembrano essere sempre più diffusi: o si trovano adulti che vogliono far diventare questi ragazzi come loro li pensano e li immaginano, ignorando quel dolore; o si trovano adulti che non sanno nemmeno avvicinarsi a quel dolore, e giocano a fare gli “amici” perché, forse, loro stessi non lo hanno ancora attraversato sufficientemente. Nel mezzo la fatica di tantissimi genitori, più equilibrati, che cercano, come possono, di stare davanti ai figli adolescenti e mi dicono: “Ma io non ero così alla loro età”.

E questi genitori hanno ragione. Il modo e gli stili per attraversare l’adolescenza di 30-40 anni fa non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelli degli adolescenti di oggi. Per questo non basta più ricorrere al “come hanno fatto con me”. Se vogliamo davvero bene a questi ragazzi, dobbiamo avere il coraggio di cambiare la nostra vita adulta, almeno parzialmente, accettando una sfida che spesso va giocata con una navigazione a vista.

In questa sfida “a vista”, un po’ di studio, ma soprattutto 40 anni passati tra gli adolescenti, mi hanno permesso di trovare dei paletti, che, quando sono riuscito a incarnare, hanno dimostrato di funzionare abbastanza, almeno per me. Provo a descriverli, senza la pretesa che siano ricette buone per tutti e senza pensare che siano pillole “pret-a-porter” da usare “a freddo”. Ma se li riterrete sensati, per poterli “incarnare” si deve accettare quella sfida e cambiare il nostro modo di stare al mondo.

1) Trovare il tempo e l’energia per stare con loro senza alcun obiettivo immediato, desiderosi solo di essere per loro uno spazio in cui possono togliersi un po’ la corazza che si sono costruiti per stare dentro ad un mondo molto difficile per tutti.

2) Ascoltarli come se, per noi, non ci fosse un domani, come se davvero loro fossero, in quel momento, l’unica cosa che conta nella la nostra vita, perché possano sentire che, per noi, è bellissimo che loro esistano e che siano così come sono.

3) Provare a funzionare per loro, prima che come modelli a cui guardare, come specchi in cui guardarsi, specchi il più possibile “puliti” o per lo meno umili e consapevoli delle nostre ferite, ma che per questo sanno mostrare loro le ferite che essi si portano dentro, e così poter cominciare a ricucirle.

4) Domandare loro: “Cosa senti? Che emozione stai provando? Come si chiama? Puoi descriverla? Che bisogni avverti? Cosa ti dice il tuo corpo? Sai distinguere tra i tuoi bisogni e i tuoi desideri? Come sogni il tuo futuro?”

5) Permettere le espressioni di tutte le emozioni… sì, tutte! Ma insegnando loro modi di farlo che siano socialmente accettabili (se li conosciamo), senza farci “spostare” da ciò che loro esprimono. Se ci “spostiamo” loro tenderanno a chiudere il canale con noi, perchè ci sentono incapaci di co-rreggere, insieme a noi, ciò che loro vivono.

6) Evitare di stare troppo sui ragionamenti, che pure ci vogliono, ma che vanno dosati e devono aiutarli a capire le proprie emozioni e non darsi risposte teoriche, che non aiutano la ricucitura interna.

7) Provare a condividere con loro qualche “passione” che ci faccia sentire bene “insieme”, connessi, in qualche modo legati piacevolmente, mostrando che essere adulti non vuol dire aver ucciso il proprio bambino interiore.

8) Permettere loro la voglia di sperimentarsi per capirsi e trovarsi, smettendo di essere così tanto preoccupati della cattiveria del mondo o di immaginare che noi già sappiamo dove stia di casa la loro felicità. Fare di tutto per evitargli il dolore è la cosa peggiore che possiamo fare per loro.

9) Saper dosare la distanza affettiva, con molta vicinanza quando loro ne mostrano il bisogno e non quando noi lo desideriamo; ma anche molta distanza quando mandano segnali di insofferenza alla nostra presenza, senza per questo sentirci esclusi, inutili o incapaci. Perchè fra qualche attimo ci chiederanno di esserci di nuovo.

10) Consegnare le regole di comportamento in modo condiviso, ma fermo, poche regole, chiare e motivate, sulle quali loro definiscono le sanzioni per loro e noi quelle per noi. Un contratto, in cui però noi continuiamo a decidere se accettare o no le loro proposte e richieste. Poi essere rigorosi nell’applicarle, nel bene e nel male.

11) Ricordarci che, se siamo in un ruolo educativo, questo non può assorbire tutto il senso della nostra vita, caricando su di loro tutta responsabilità di renderci felici; ma nemmeno che quel ruolo può essere vissuto solo per caso, o per il 27 del mese.

12) Accettare di essere messi in discussione, senza sentirci per questo svalutati come persone evitando di reagire facendo pagare a loro le nostre ferite. Non siamo onnipotenti e ammettere gli errori e chiedere scusa è un potente strumento educativo.

13) Imparare a stare nel conflitto con loro, senza la voglia di vincere o di lasciar perdere, facendo sentire loro il confine in cui noi non accettiamo di essere calpestati e perciò nemmeno vogliamo calpestarli.

14) Mostrare loro che siamo abbastanza felici di quello che siamo come persone, sapendo che la perfezione non è di questo mondo e che la vita non è “solo” adesso, ma che la vita “ha tempo”.

Lo so, cose già dette e ridette, per lo meno io le sento così, ma forse, ancora non dette abbastanza.

 

8 risposte a “Non so perchè l’ho fatto”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    …l’oggi per fare nuovo il domani. Domandarci cosa è mancato ,al ragazzo/ uomo, per essere stato capace di causare male a se stesso in primis e agli altri. Forse la risposta va ricercata nel mondo che lo circonda, indaffarato a spendere tempo e energie a rincorrere benessere e valori che sacrificano quei sentimenti che sono fondanti, ideali come credere nel bene partecipato e condiviso, il coraggio di amore donato, non solo verso se stessi ma avendo fiducia nella Parola di Dio! Via, verità e vita. Luce che con molti altri beni ha posto nel dna umano, a rendere l’uomo essere superiore, a Lui simile, capace di aspirare a vita che non muore. Non so, non volevo…? appare fallimento di un evolversi umano di presunta civiltà. c’è orgoglio a prevalere usando qualunque mezzo, al branco, come a una piu’sofisticata, arma X vincere l’avversario, diventa start up in violenza anche un esercito, insensibile di votare al sacrificio vite umane,

  2. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Non so perché l’ho fatto!?si, c’è da crederci, per quanto di triste sveli questa affermazione che lascia increduli tutti: insegnante/i e mondo adulto, famiglia e società. I genitori che credono convinti di aver fatto il possibile, la società che con i suoi valori crede di aver inventato/ inventare come vivere meglio l’oggi scommettendo sul domani(AI). Ma la realtà ci sta davanti un ragazzo prossimo uomo che non sa, non ha risposta del suo malfatto. Una, più guerre che incuranti di quanto costo umano, sangue da innaffiare terreno lacrime da cuori distrutti dal dolore, che trova rispondenza in una natura a sua volta violentata per sfruttamento , inquinamento, le sue leggi originali alterate da un uomo che appare accecato da un proprio volere sempre di più, eper questo il disastro del cambiamento climatico distruttivo anche di un vivere in pace e serenità. Davvero non si vuole indagare dove sta la causa di tanti mali? Eppure bisogna farlo, con umiltà se si vuole salvare

  3. Paola Meneghello ha detto:

    Forse, non c’è neanche un perché da cercare negli altri, fuori da sé.
    Nella stessa famiglia e ambiente, a volte,
    ci sono ragazzi diversissimi.
    Personalità complesse, con cui è meno facile relazionarsi, e con cui la stessa persona fa fatica a convivere.
    Un male, un disagio dentro.. Quasi un bisogno inconscio di fare e farsi del male, un tale odio verso se stessi da aver bisogno di farsi odiare e disprezzare, come in un vortice..
    Da vittima a carnefice forse è un attimo e non c’è un perché razionale. C’è solo quell’attimo di buio in cui le viscere emergono e travolgono tutto.
    Voglio pensare che a volte scavare l’abisso in sé serva a risalire, ma non senza Perdono. Ma non degli altri, il problema è sempre con se stessi.
    Chi compie simili atti, si deve perdonare lui stesso per primo. E deve fare Luce in sé.
    Non si può sempre demandare agli altri, arriva un momento in cui l’io che tanto odia e si odia, deve chiedersi: Perché?

  4. Maria Cristina Venturi ha detto:

    Basta aver letto ” Delitto e castigo” di Dostoevskij per capire che dietro la dichiarazione ” non so perche’ l’ ho fatto” c’ e’ il narcisismo patologico di chi si sente unico e diverso , io so’ io e voi non siete un ca..o, e non vi dico certo perche’ l’ ho fatto tanto voi noiosi borghesi non potete capire niente di me, dell’ essere particolare che sono al di la’ del bene e del male.

  5. Maria Cristina Venturi ha detto:

    Poverini! Quanta compassione per questi poveretti che , alla verde eta’ di 15, 20 22 anni fanno del male ,uccidono ,distruggono ” non sanno perche’ lo fanno !
    Molta meno compassione pero’ vedo in giro per le vittime di questi poveri nulla sapienti.
    Nessuno tocchi Caino,anzi paghiamoli una buona psicoterapia ,perche’ Caino non sa perche’ ha ucciso ! ! pero’ di Abele chissenefrega .

  6. pietro buttiglione ha detto:

    AZZARDO.
    1) Perchè? SE si tratta della tipica deriva di reazione alla mancanza di AFFETTO,
    specie nei primi anni di vita, specie da parte della MAMMA..
    risponderà sempre ‘non lo so’ xchè non riesce a collegare la sua sofferenza interna con il ‘male tout court’ che fa.
    Molti item proposti da Gil aiutano in qs ottica.
    2) Può aiutare se gli si chiede come ‘vede’ quello che ha danneggiato , non certo la cosa ma quello che rappresenta.
    ma qui siamo a livello di psicanalisi ( che aborro..)
    PS Accosterei, tanto x capire meglio, l’atteggiamento std del drogato con
    – non mi capisce nessuno
    – tanto non cambia niente
    – isolarsi da tutto..
    Se ci riflettiamo … siamo vicini vicini ai casi citati.
    Inoltre andrebbe fatta una seria riflessione ( cfr Sergio..) sul RUOLO che rappresentano ai LORO occhi gli adulti, la Chiesa, il mondo, il lavoro, lo studio, ecc, ecc.

  7. Sergio Di Benedetto ha detto:

    Aggiungo anche una nota 15: domadandare, nel momento in cui accadono semplici dinamiche, “che cosa vedo?”, “Che cosa mi pare stia accadendo di palese”, può aiutare l’autoriflessione

  8. Sergio Di Benedetto ha detto:

    Aggiungo 2 note a quanto scritto da Gilberto; 1) la conseguenza di tutto ciò è l’irresponsabilità diffusa, cioè il non capire che ogni azione comporta una conseguenza che non può essere ignorata, perchè essa esiste: questa è prima di molti adulti (lo dice anche Gilberto), del sistema politico, sociale, civile… poi degli adolescenti. C’è sempre un modo per ‘sfangarla’, smentire, negare, tanto tutto passa in fretta. Vedi la politica 2) la causa: dovremo forse essere più netti nel denunciare che un sistema economico e sociale tardo-capitalistico costruisce consumatori che devono consumare sempre di più nell’immediato e quindi sempre più insoddisfatti. Senza un’analisi penetrante anche dei fattori economici-sociali-politici rischiamo di vedere l’antropologia mutata come ‘caduta dal cielo’.

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