Terza puntata. Nel rapporto tra i giovani e la fede non si può non dare un’occhiata all’immagine di Dio che si portano dentro. Credo che questa sia la cartina di tornasole più chiara su veri motori che li animano a credere.
Quando pensai che questo tema non poteva essere saltato, in questa analisi, immaginai di trovarmi davanti due aspetti principali della loro immagine di Dio. Da un lato un assenza, la lontananza, la distanza notevole che mi sembrava separare Dio e questa generazione. In secondo luogo, per chi invece ne avverte la presenza, mi aspettavo di trovare ancora molte tracce del Dio giudice e un po’ moralistico che spesso molti adulti cattolici ancora si portano dentro. Bhè, devo ammettere di aver sbagliato su tutta la linea! La sorpresa, ancora una volta, la fa da padrone.
Il primo elemento di essa è costituito dalla percezione di base, molto diffusa tra i miei studenti, di come sia Dio. “Lui non vuole il nostro male, ma solo insegnarci qualcosa di buono”. O ancora: “Dio è l’amore che crea la vita. E’ tutto il bello del mondo messo insieme”. Frasi che, pur in formulazioni diverse ho trovato in almeno la metà degli elaborati. E frasi che spesso si fondono nell’idea che più di ogni altra riassume, per loro, l’essenza di Dio: “Dio ama la vita, il mondo e tutto quello che c’è. Ama anche gli uomini, anche quando fanno cose che non vanno fatte. Amare un’altra persona, perciò, è come consolidare il rapporto con Dio, perché tutti siamo sue creature”.
Questa frase, qui è espressa chiaramente, mentre in altri elaborati è meno esplicita, ma comunque molto presente come idea. E dice molto bene come il tono emotivo di fondo sotto cui Dio è percepito da loro sia quello della bellezza e della bontà, sintetizzate nella esperienza dell’amore. E invece, in genere, chi tra loro ancora utilizza la razionalità come strumento privilegiato per l’accesso a Dio, finisce per non arrivare alla fede: “Non si crede in Dio perché la realtà è troppo piena di contraddizioni per essere creata da lui. A mio parere Dio ad Auschwitz non c’era. Perché non ha fermato questo dolore?” Che conferma come il piano antropologico in cui loro possono fare esperienza di Dio non è più dato dal mondo razionale e dal rapporto tra pensiero e Dio, ma dal mondo relazionale, e in esso dall’esperienza dell’amore. L’aristotelico Dio “pensiero di pensiero” viene sostituito dal più biblico “amore di amore”.
E questo forse spiega come la seconda caratteristica di Dio, che loro ci mostrano, è quella di non essere compiutamente spiegabile: “Anche se la gente vorrebbe spiegare Dio, lui non si spiega, se no che Dio sarebbe?” O anche: “Non si può spiegare Dio. Ci si crede e basta”. Che, formulate così, prestano il fianco davvero ad una fede irrazionale, ma in verità segnalano solo come a questi ragazzi faccia più figura il mistero di Dio che non la sua comprensibilità. Tanto che poi restano aperte in coloro che credono le domande tipicamente razionali su di Lui: “Ma chi lo ha creato Dio’”. O ancora: “Come fa ad essere dappertutto?”. Perciò la mente non è fuori gioco, ma semplicemente arriva dopo. E magari questo potrebbe essere anche un monito per noi, che spesso rischiamo di voler tradurre e confinare Dio nelle nostre categorie razionali e basta.
La conseguenza che ne viene per loro è che il rapporto con Dio si configura molto più che per noi, sotto il segno della gratuità libera. A differenza dei moderni, quanti tra questi post-moderni credono in Dio lo fanno non per bisogno, non per necessità logica, ma come valore aggiunto gratuitamente. “Non penso che Dio possa risolverci i nostri problemi, le risposte dobbiamo trovarle da soli”. Oppure: “Spesso sono portata a pensare ai credenti come persone dipendenti da Dio. Come se Dio fosse un scusa per andare avanti nella vita e affrontare le difficoltà”.
Come a dire che la loro vita “funziona” anche senza Dio, ma se lo accettano, questa vita prende un valore in più che può finire anche per cambiarla profondamente. “Non so davvero cosa farò finita la scuola. A volte penso che potrei anche fare il missionario in africa. In fondo stare qui a fare quello che fanno tutti non ha molto senso, perché sai già in partenza come va a finire. Lì almeno non lo sai. E magari fai proprio del bene. Certo ci vuole una fede grande, che io non ho.”
E allora tiro due fili, che mi sembrano veri. Il primo. Diventa molto interessante, anche sul piano dell’evangelizzazione, questa immagine di Dio. Una specie di trasformatore della vita che può aprire lo schema “già dato” a cui loro cercano disperatamente di sottrarsi, perché a 18 anni hanno già percepito che lì dentro finiscono per essere triturati dal sistema e omologati a “non persona”. Come tanti altri. E proprio per evitare questo rischio stanno fermi, attendisti, a volte apatici. E noi che cerchiamo di muoverli consegnandogli un Dio “dello schema”, chiaro, definito, solo da scartare e consumare!
Il secondo. Un Dio che si presenta a loro come amore, produce dolcezza e bellezza, non paura e distanza. E allora, anche qui sul piano della evangelizzazione, dovremmo apprezzare di più la strana capacità di questa generazione di percepire la differenza tra uomo e Dio non sulla linea antropologica del sacro, ma su quella biblica della santità. La distanza, cha anche per loro resta, tra Dio e l’uomo non sta nel suo stra-potere e nella sua perfezione logica, che si impone alla mente umana, ma nel suo stra-amore e nella sua perfezione estetica, che ci attrae senza chiudere la nostra libertà.