E’ nato tutto da una domanda di Stefania. Una domanda forse affettiva e concreta, come è lei. “Prof. , ma nel Nirvana ci andrebbe anche il mio cane”. “Ma Ste, ti ha appena detto il prof. che il Nirvana Buddhista è solo per lo spirito, la materia non c’entra. Ti sembra che il tuo cane sia uno spirito?” Giovanna ci tiene a dimostrare che è stata attenta e forse con Stefania ha anche un piccolo rancore per (non) passate questioni di ragazzi. “Ma no, Giova, non volevo dire questo – ribatte Stefania – dicevo che il mio cane per me vale come una persona e siccome l’anima delle persone, per i Buddhisti, finisce nel Nirvana, volevo sapere se anche l’anima del mio cane ci va”.
“Scusa Ste, fammi capire – intervengo io – Cosa vuol dire per te che il tuo cane ha lo stesso valore di una persona?”. “Quello che ho detto prof. il mio cane per me vale come una persona, anzi rispetto ad alcune persone vale anche di più”. “Cioè valere, per te vuol dire che ha dignità e richiede rispetto? “. “Esatto prof.”. “Va bhè dai Ste, non puoi dire una roba simile – Giovanna la incalza – Il cane va rispettato più delle persone? Ma non esiste, per quanto tu gli voglia bene resta un animale!”. “Ma cosa vuol dire se è un animale? – risponde risentita Stefania – E’ un cane che non fa male a nessuno, molto intelligente, fedelissimo, disposto anche a fare sacrifici per me. Un sacco di persone sono peggio, e di molto. Quindi non diciamo che il cane ha meno dignità di una persona!”
“Ok. Ste, posso capire il tuo ragionamento – faccio io – ma se lo seguo fino in fondo, allora la dignità di una persona è legata al fatto che sia o no una brava persona. Un assassino ad esempio non sarebbe più una persona?”. “Prof. non vorrà mica dire che un assassino è una persona!!” Luca, si butta nella discussione proprio sul punto che lo tocca di più, da sempre favorevole alla pena di morte. “Dopo quello che ha fatto non è mica degno di essere rispettato?”
“Bene ragazzi – dico alla classe – allora proviamo ad applicare a voi stessi le qualità del suo cane, che Stefania ha indicato, e che le fanno pensare che sia come una persona. Chi di voi allora si sentirebbe davvero una persona?”. “A bhè, prof. – salta su Cristina – se la mette così credo nessuno si sentirebbe davvero una persona. Io, prof., ci sono giorni che davvero mi sento meno del mio cane, e lo invidio perché non ha i miei problemi. Sa quando nessuno ti guarda, sei trasparente, nessuno ti considera e hai l’impressione che anche chi ti vuole bene si sia dimenticato il tuo numero”.
“Certo Cristina – rispondo – capisco, ed è dura davvero sentirsi vivi quando si è così. Ma siamo davvero sicuri che essere una persona sia qualcosa che si sente e non invece una condizione che ognuno di noi possiede da sempre, indipendentemente da come si sente o da cosa ha fatto? E che nessuno ci può togliere, qualsiasi cosa possiamo fare, dire o sentire?”. “Bhè, prof., per me Cristina ha ragione – soggiunge Luca – io due anni fa ho passato un periodo brutto e mi sentivo come Cristina. Sono arrivato persino a tagliarmi le braccia con la lametta, pur di sentirmi vivo. Non credo che il valore di una persona sia una cosa che tutti hanno, dipende… Forse dipende da quanto ti senti amato o no… E non è mica facile sentirlo questo!”
E nella vena di tristezza e dolore con cui Luca chiude la frase, il silenzio della classe segna l’assenso degli altri alla sua idea. E mi impone una riflessione.
Nella teologia classica il concetto di persona è legato all’essenza dell’uomo, intesa come un dato “a priori”, intangibile e creato da Dio, definito dallo spirito, dalla intelligenza e dalla volontà. E’ palese che questo concetto sia perfettamente insignificante per i miei studenti, e credo anche per molti adulti di oggi. L’erosione del concetto di persona, provocata dalla cultura attuale, è ormai radicale. E la distanza comunicativa tra quella teologia e questa cultura rende davvero problematico oggi fondare l’assolutezza della persona. Tutt’al più il fondamento viene riempito con qualità morali (l’assassino non è persona) o con percezioni emotive (mi sento meno del mio cane). Allora però mi viene da interrogarmi un po’.
Primo. Siamo davvero sicuri che valga la pena continuare a ribadire il concetto di persona secondo la teologia classica, in modo essenzialista e ontologico? A chi riusciamo a parlare oggi, in questo modo?
Secondo. Luca vorrebbe una risposta più o meno così: esisto perché sono amato! E non è forse questo il cardine del concetto di creazione? Amato di un Amore assoluto che mi crea persona, a somiglianza Sua, che è Comunione assoluta di persone, tali solo per il reciproco Amore assoluto che “sono” tra di Loro.
Terzo: E come si fa a dire a Luca una cosa del genere, se non facendolo sentire amato realmente? Serve davvero, perciò, cercare di salvare una formulazione della Verità di Gesù, se non viene vissuta effettivamente mentre la si comunica? Per Luca, i miei studenti e molte persone oggi, il concetto di persona si fonda sull’esperienza di sentirsi profondamente amati in modo gratuito. Il resto, restano chiacchiere.