“Cerbara, Dragoni e Khili, ci sono?” “Si prof. Io e Khili ci siamo. Dragoni non è ancora arrivato”. “Allora, cominciamo da voi due. Sedia e venite qua, oggi siete interrogati, ve lo ricordate?” “Si, certo prof.” Così inizio la mattinata del lunedì in una quarta. E’ tempo di voti.
Dopo circa 10 minuti la porta si apre all’improvviso. “Dragoni! Ben alzato! Complimenti per la puntualità”. Tra un sorriso di facciata e il respiro da rincorrere, riesce solo a guardarmi, mentre allarga le braccia a dire “non ce la posso fare”. “Vedo che non sei ancora molto lucido – gli dico – L’alcool di ieri sera è ancora in circolo”. Sorride, diventa un po’ rosso e finalmente, nonostante la lingua impastata riesce ad articolare una frase: “La giustifica è di sotto alla firma, dopo gliela do. Sono in coma prof.” “L’avevo capito, fino lì ci arrivo ancora Filippo, ma tu ricordi che sei interrogato stamattina?” “Nooo. Non esiste prof. E’ un suicidio!”. “E’ da un mese che lo sai – gli dico – Perciò respira, prendi una sedia e vieni qua”.
Grugniti, strepiti, sceneggiate, ma alla fine viene interrogato. E dopo aver finito gli altri due tocca a lui. Gli argomenti sono una parte della teologia morale fondamentale: coscienza, legge morale, libertà, valori e bisogni. “Ok Filippo, voglio essere buono. Argomento a scelta.” “Ehmm… (sorriso e silenzio). Meglio che scelga lei prof.” Della serie: per scegliere un argomento bisognerebbe sapere quali sono gli argomenti. “Ho capito – gli dico – Allora, parlami delle birre di ieri sera, com’erano?” “Ah prof. questo lo so, ma mica c’entra”. “Come non c’entra Filippo? Tu ieri sera hai bevuto qualche birra. Giusto?”. “Qualche? Ah, ah. Sono arrivato a sette. Ma fino lì ero ancora connesso. Poi hanno portato i Tequila. Dai come si fa…, eravamo tutti lì…, in compagnia. Ma la mazzata sono state le vodke. Ho capottato sul tavolo.”
“Ok Filippo, purtroppo lo immaginavo. E tu hai scelto liberamente di bere così ieri sera?”. “Eh certo prof. mica mi ha costretto nessuno”. “Perciò, secondo te, tu hai scelto in base ad un valore o ad un bisogno?”. “Oddio prof. così di brutto non saprei. … un valore? … no, direi di no, io avevo bisogno di bere, è un periodo un po’ così”. “Sì lo so, e so anche perché. Ma mi sembra che il tuo bisogno decida spesso per te”. “Cioè, cosa vuol dire, prof?” “Che non mi sembra, che tu sia in grado di dire di no a questo bisogno”. La classe sorride, perché sa bene che da un po’ Filippo, purtroppo, passa di là spesso.
Lui abbozza, sghignazza e poi d’improvviso si fa serio: “Si, ma prof. detto così è proprio brutto. Schiavo di un bisogno, no … non mi piace. No, non la mettiamo così, diciamo che mi piace “scaricare” i miei problemi in compagnia”. “Mettila come vuoi Filippo, ma non mi sembra che tu sia molto autonomo nelle tue scelte”. “Come no??” Lo dice quasi svegliandosi d’improvviso. “Ho scelto io, mica mi hanno costretto”. “Filippo, scrivi queste due parole sulla lavagna: autonomo, eteronomo”. Da bravo scolaretto esegue. “Mi trovi la parte comune delle due parole?” “Nomo, la parte finale”. E d’improvviso s’accende. “Ah sì prof. lei l’aveva spiegato … mmmm … legge, regola …, mi pare”. “Osta Filippo, i fumi si diradano, ah ah ah. Allora associa anche la prima parte della parola”. “Auto … bhè, uno che si fa le regole lui. Etero … osta, etero cosa vuol dire?”. Arriva un soccorso dalla classe che sta seguendo la scena con non celato divertimento. “Ah si – fa lui – vuol dire altro … quindi che segue le regole degli altri”. “Ok – dico io – E tu che regole ti sei dato ieri sera?” “Ah, ieri sera? … Nessuna prof.”. “E quindi come fai a dire che sei una persona autonoma? Mi sembra che la tua scelta di ubriacarti sia più una scelta eteronoma, cioè fatta perché eri in compagnia, dove il tuo bisogno ha deciso per te di omologarti a quello che fanno tanti”.
“Azzz prof. ma che schifo. No, non mi piace così. Però prof. lei non può cambiare le cose, io non sono un pecorone!”. “Io non ho fatto altro che mettere in fila quello che mi hai dato tu – gli dico. E alle conclusioni ci siamo arrivati insieme. Lo capisco che ti faccia schifo. Anche il tuo corpo te lo dice, e il tuo fegato di più, che bere così fa schifo. E ti fa perdere la libertà”.
Si fa serio e abbassa la cresta, nel senso reale del termine, un ciuffo di capelli colorati di rosso che troneggiano su una testa di per sé buona, ma devastata da problemi di relazione alle spalle. “Nessuno è libero, prof. non raccontiamocela!”. “Filippo, smettila tu di raccontartela. Ci sono mille altri modi di affrontare i problemi, meno devastanti. E nessuno ti vieta di cercarli. Noi siamo e restiamo liberi sempre, anche quando pensiamo di non farcela più. Se tu non fossi liberi non ti farebbe schifo il quadretto che abbiamo costruito sul tuo modo di agire. Perciò la palla è tua adesso, non degli altri”.
Lo reinterrogherò. Lo conosco, so che si merita almeno la sufficienza. Ma come lui, la fuga di questa generazione dall’autonomia a volte è impressionante. E allora mi chiedo: che “parola” ha la Chiesa da dire a questa generazione? Possiamo continuare ad offrire loro una morale eteronoma, come sta scritto in tanti testi di teologia? E a dirgli che la “teonomia” (le regole di Dio) è una delle tante versioni possibili della eteronomia? O a mostragli che molti cristiani hanno paura della autonomia, tanto quanto loro, scambiando la fede solo con l’adeguamento alle regole prestabilite dall’autorità?