La famiglia, la scuola e i ragazzi da incontrare davvero

Nelle aule c'è una Chiesa-già-in-uscita che può offrire uno sguardo sui giovani - di frontiera e sulla soglia - che resterebbe altrimenti sconosciuto
26 Giugno 2015

La scorsa settimana si è svolto a Roma il convegno diocesano, dedicato al ruolo testimoniale che rivestono i genitori nella trasmissione della fede e della bellezza della vita. Dopo il discorso tenuto da Papa Francesco davanti ai fedeli della chiesa di Roma nel giorno di apertura, e le due relazioni lette nella serata successiva dalla sociologa Elisa Manna e dal direttore dell’ufficio catechistico monsignor Andrea Lonardo, i protagonisti dell’ultima giornata sono stati i laboratori. Migliaia di persone divise in cinquanta gruppi, coordinati ciascuno da una coppia di genitori. In questi luoghi si è praticato l’ascolto di tutti, portando avanti una riflessione quantomeno appassionata, per avanzare infine delle proposte operative sull’amore e l’educazione agli affetti e alla carità da parte dei genitori, sull’accoglienza e l’accompagnamento parrocchiale dei genitori e delle ferite familiari, sull’annuncio di fede ai genitori e sul loro rapporto con la liturgia domenicale, sulla relazione tra i genitori e la scuola. Il tutto rigorosamente da verbalizzare e da consegnare al cardinal Vallini, il quale dovrà sintetizzare il grande lavoro svolto nella relazione finale che verrà letta ai primi di Settembre, in concomitanza all’affidamento del mandato ecclesiale ai presbiteri e ai catechisti.

Anche quest’anno ho deciso di partecipare e, dato il mio lavoro di insegnante, mi sono indirizzato verso uno dei gruppi dedicati al rapporto tra genitori e formazione scolastica dei figli. Esperienza interessante e formativa. Anche perché, da quello che è emerso, mi è sembrato di notare quanto ancora oscilliamo come comunità tra due modalità di essere Chiesa che si affrontano e confrontano da prima che io nascessi. Quella della Presenza. Evidente. A tratti invasiva. E quella della Mediazione. Silenziosa. A tratti nascosta. In termini evangelici, quella del risorto di Tiberiade (Gv 21) e quella del risorto di Emmaus (Lc 24).

Da un lato, infatti, è emerso che, si tratti di cultura, carità o bioetica, il compito della scuola e degli insegnanti, in particolare dell’insegnante di religione (ultimo baluardo secondo quest’ottica), dovrebbe essere quello di mostrare. Che non necessariamente coincide con il testimoniare. Mostrare, dunque, quanto di bello ha prodotto nella cultura il cattolicesimo… secondo Comunione e Liberazione; soprattutto laddove tutto ciò è ignorato. Mostrare, poi, quanto di buono fa per i poveri il cattolicesimo… della Comunità di Sant’Egidio; soprattutto laddove tutto ciò non è praticato. Mostrare, infine, quanto il vero debba essere difeso, di fronte agli attacchi della ‘ideologia gender’, dal cattolicesimo… del Cammino Neocatecumenale; soprattutto laddove tutto ciò è disprezzato. E chi non mostra secondo queste modalità – è stato ventilato – probabilmente si nasconde. Dunque potrebbe essere “molle”, privo di coraggio. In definitiva, se non è dei nostri, forse è contro di noi. Potrebbe risiedere in questo atteggiamento l’origine della inaspettata reprimenda che il ‘secondo noi’ di Avvenire ha dedicato all’intervento finale del family day di sabato, pronunciato dal fondatore del Cammino neocatecumenale, Kiko Arguello.

Dall’altra parte, quella delle periferie, è arrivata la testimonianza di una suora, sempre cattolica, ma del Kosovo. Insegnante in una scuola (e in una città) a stragrande maggioranza musulmana, ella ci ha raccontato come in un luogo dove il cattolicesimo è minoranza religiosa, se non perseguitato, la via del coraggio, dell’appartenenza ed in un certo senso dell’apologetica sia passata attraverso una lunga opera iniziale caratterizzata da pazienza, gradualità e silenzio. Sulla scia di San Francesco – ha chiosato la sorella; e di Francesco (EG, 69) – aggiungerei io… Producendo frutti molteplici ed altrettanto evidenti. La stessa Comunità di Sant’Egidio deve essersi resa conto che in certe scuole superiori non si entra dall’alto, ma dal basso, se da un paio di anni sono gli studenti giovani per la pace a coinvolgere i loro coetanei nelle attività caritatevoli. Con una più efficace discrezione e delicatezza.

Perché allora, mi chiedo, il compito di un insegnante e le sue modalità di approccio dovrebbero essere diversi nella nostra società dove la secolarizzazione – o, come è stato detto, la scristianizzazione – confina il cattolicesimo in una situazione valoriale di minoranza? Perché non fidarsi del fatto che le bellezze della cultura cattolica, la bontà della pratica cattolica e la verità delle idee cattoliche possano, anzi debbano, essere testimoniate in questo modo altro, soprattutto quando il contesto è così difficile perché dominato dall’ignoranza, dall’assenza di vissuto condiviso, addirittura dal disprezzo?

Non è un caso che un paio di insegnanti di religione abbiano attirato l’attenzione su tale conversione di atteggiamento. Un sì deciso – hanno affermato – rispetto alla necessità di “scendere in campo”, ma domandandosi poi in quali progetti possano trasformarsi quelle file chilometriche che si creano solo durante i loro ricevimenti pomeridiani e che viaggiano sulla linea della riservatezza e dell’elaborazione in profondità delle relazioni. Constatando che è inutile puntare il dito contro i tecnici delle colonizzazioni ideologiche se poi i genitori si autoesiliano dai luoghi decisionali delle scuole e se i parroci non si svegliano e cominciano ad invitare i docenti di religione a condividere nelle parrocchie un po’ di quello scombussolamento che loro stessi per primi, e spesso unici, sperimentano nelle classi. Nella certezza, quindi, che l’insegnante di religione o quello cattolico in generale debba pensarsi e viversi come un vero e proprio enzima – nel senso scientifico del termine…

Quella che invece è totalmente mancata, nonostante venisse invocata dall’instrumentum laboris del convegno diocesano, è una riflessione sulla scuola – e quindi sull’insegnamento (anche della religione) – come luogo in cui le riflessioni e le azioni, le pratiche e le verità di ogni identità culturale, compresa quella ecclesiale, vengono sfidate a ricrearsi e rielaborarsi in modo dinamico (EG, 122); come luogo in cui la fede – ed ogni sensibilità religiosa – matura nel confronto culturale (scontro o incontro che sia), solo in tal modo divenendo sapere saporoso, sapienza.

Lo confesso. Io penso che molti insegnanti di religione siano depositari di un sapere quasi esoterico, ottenuto dal contatto diretto con i loro studenti. Dentro e fuori la Chiesa, infatti, tutti dicono che bisogna costruire ponti con la cultura delle giovani generazioni, e innanzitutto con quei giovani che dopo la Cresima abbandonano la frequentazione della Chiesa. Quasi nessuno, però, si rende conto che questa diaspora di ragazzi viene incontrata ogni giorno e nei suoi anni più difficili soprattutto da noi insegnanti di religione delle scuole medie e superiori. E siccome l’ora di religione è ancora un’ora di cultura teologica e non di catechismo, questi ragazzi condividono volentieri con noi azioni, emozioni, ragionamenti, affetti, valori esistenziali e spirituali difficilmente conoscibili in altro modo. Possiamo, anzi dobbiamo immaginare quindi quanto si potrebbe realizzare di buono in chiave di pre-evangelizzazione, di maturazione della fede, di mediazione tra famiglie e scuola e tra alunni credenti e non credenti, addirittura di accompagnamento spirituale, se si investisse in modo adeguato dal punto di vista pastorale su questa sottovalutata risorsa ecclesiale (EG, 132-133), su questa forma di Chiesa-già-in-uscita che può offrire ad ogni realtà diocesana un punto di vista sui giovani – di frontiera e sulla soglia – che resterebbe altrimenti sconosciuto. Un punto di vista non proveniente dall’esterno, calato sui ragazzi come un narcotico, bensì un punto di vista interno, poi certo da mediare culturalmente, ma frutto dell’ascolto di quello che lo Spirito muove nelle loro profondità.

Per questo sono convinto della necessità di pensare ad una sorta di mandato ecclesiale culturale da affidare agli insegnanti di religione, distinto seppur complementare con quello catechetico annualmente affidato ai presbiteri e ai catechisti. Per questo sono convinto della necessità di progettare un organico percorso di ascolto delle esperienze pastorali vissute e sperimentate dagli insegnanti di religione nei loro contesti scolastici, eventualmente propedeutico ad un analogo percorso di reciproca ed arricchente verifica da svolgere insieme ai catechisti. Alea iacta est

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