La recente notizia della proposta di rendere la parola “amore” neutra ha suscitato reazioni diverse: dopo aver messo un apostrofo di troppo nella campagna pubblicitaria, una nota rete televisiva ha promosso una raccolta firme perché l’Accademia della Crusca legittimi la scrittura di “un’amore” insieme a “un amore”. Avendo a che fare con studenti social-dipendenti molti ne hanno parlato, andando da un compiaciuto “Così non ci sbagliamo al compito” a un deciso “Un apostrofo non cambia la sostanza”. Piena di candore invece la reazione della ragazza che chiede: “Che ci fai con il neutro?”, domanda più che legittima da parte di chi parla una lingua che non ne fa uso.
Provando a rispondere, infatti, facciamo una veloce ricerca e ci accorgiamo che la stessa distinzione o meno dei generi manca in molte lingue, ad esempio l’inglese, e ciò sembrerebbe dipendere, notiamo, dal contesto culturale e anche religioso nel quale un popolo si è sviluppato: nelle culture orientali, taoiche e shintoiste, lingue come il cinese e il giapponese non hanno genere grammaticale sul nome; in culture che hanno una base naturistica e animista o spiritualista e sciamanica, come in Africa o tra gli indiani d’America, si distinguono anche i generi animato e inanimato; le lingue semitiche presentano una distinzione tra i generi maschile e femminile, mentre è l’indoeuropeo che ne aggiunge un terzo, appunto il neutro che, come dice il nome, indica udéteron, “né l’uno né l’altro”, tutto ciò che non è maschile né femminile.
C’è subito da sottolineare la fondamentale differenza tra genere naturale e genere grammaticale: ad esempio in latino il “poēta” è maschile ma ha forma femminile, così come in tedesco “das Mädchen“, la “ragazza”, è neutro (“È neutra!” sottolinea l’alunna).
Nelle successive evoluzioni linguistiche, dall’indoeuropeo al latino e poi alle lingue romanze (eccetto nel romeno), si va verso un sistema bipartito, fondato sull’opposizione maschile-femminile, con la definitiva scomparsa del genere neutro, che rimane invece nelle lingue slave e nel tedesco. Limitandoci alla nostra lingua, ovviamente esistono ancora nel vocabolario italiano le parole che erano neutre in latino, sono quelle che presentano un singolare maschile e un plurale femminile: braccio/braccia, uovo/uova, muro/mura. Ma il genere neutro in italiano è scomparso…
Perché? La domanda che io mi sono fatto durante i miei studi universitari è la stessa che gli alunni mi fanno oggi: di norma questi mutamenti rispondono a una logica di semplificazione del sistema linguistico, basti considerare anche la scomparsa del sistema dei casi; ma ai miei alunni non basta, dev’esserci un significato, qualche motivo più alto, addirittura più profondo!
Con i ragazzi andiamo allora all’inizio della nostra lingua e letteratura, con il primo testo che loro hanno studiato, il “Cantico delle Creature” di San Francesco, nel quale non c’è realtà del creato che non sia fratello o sorella: il sole e la luna, il vento e l’acqua, il fuoco e la terra, persino la morte. Per il Santo d’Assisi non esistono cose neutre: a differenza di un mondo che vorrebbe cosificare le persone, San Francesco fraternizza ogni realtà del creato, proprio in quanto Creato. Non è tanto una personificazione degli esseri inanimati, quanto un riconoscere che ogni cosa è un segno che rimanda a Qualcuno, e in ciò m’interpella a riconoscerne la sua relazionalità.
Sarebbe forse eccessivo dire che l’impatto del Cristianesimo sul mondo latino ha avuto un qualche ruolo nella scomparsa del neutro, ma è decisamente suggestivo pensarlo, soprattutto se vale l’analisi fatta all’inizio sulle lingue influenzate dalla cultura anche religiosa.
Ma tornando ad “amore”, che da maschile in latino si evolve placidamente in maschile anche in italiano, ha senso reintrodurre oggi il genere neutro, meccanismo linguisticamente innaturale, fosse anche solo per questa parola?
A questo punto uno degli alunni ha uno di quei lampi di genio che spesso avvengono in classe: «Prof, niente apostrofo! Anzi, allora è meglio senza articolo, solo “amore”, senza niente: è più potente». Ha detto proprio così: è più potente! Gli altri ridono ma la verità è che in quella semplice risposta c’è tutto il senso dell’amore, umano, letterario, cristiano.
Anche in questo torniamo all’inizio della letteratura italiana, con gli Stilnovisti che dedicano a questo sentimento, variamente inteso, pagine e vite. La donna angelo ha la funzione di indirizzare l’uomo verso la nobiltà e la sublimazione lo rende un Amore assoluto e puro, divino. Gli Stilnovisti parlano non de “l’amore”, né di “un amore” (men che mai di “un’amore”), ma sempre di “Amore”, senza articolo: da Guido Guinizzelli (“Al cor gentil rempaira sempre amore“) a Lapo Gianni (“Amore, i’ prego la tua nobiltade“). Su tutti ovviamente Dante che nella Vita Nova tratteggia una figura di Amore, senza apostrofo e senza articolo, che “signoreggia” la sua anima (da Vn II 7 a XXVII 4), lo governa, lo distrugge, lo assale, ma gli dona anche una vita dolce e soave (VII 4 7), gli piange nel cuore e partecipa al suo dolore, e che alla fine s’identifica con Beatrice, arrivando a dire “quell’ha nome Amor, sì mi somiglia” (XXIV 9 14): la donna amata dal poeta ha per nome Amore, parola che rimane sempre grammaticalmente maschile. Anche in tutte le Rime Amore “alberga” nella mente di Dante (CXVII 13) e nel Convivio la Filosofia gli appare “accompagnata d’Amore” (Cv II II 1). Nella Divina Commedia c’è un’evoluzione interessante, perché è ancora Amore senza articolo quello che condanna Paolo e Francesca, nei versi tra i più famosi del poema: “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende… Amor, ch’a nullo amato amar perdona… Amor condusse noi ad una morte” (If V 100.103.106). Questi pochi versi vengono a dire la grande caratteristica di Amore, cioè che esso non può essere neutro: l’amore può sublimare, portare a Dio, sì, ma può anche condannare all’Inferno, quando domina la vita, la “signoreggia” e porta alla morte.
Di cerchio in cornice Amore cresce e da sentimento umano diventa solenne e religioso, con un’investitura teologica: nel Paradiso è Dio, che s’invoca come “Amor che ‘l ciel governi” (Pd I 74) e “Amor che queta questo cielo” (Pd XXX 52). Non è certo questa un’invenzione di Dante perché il padre della nostra lingua parla cristiano: l’apostolo Giovanni nelle lettere scrive o teòs agàpe estìn, “Dio è Amore” (1 Gv 4), senza articolo, premettendo che chi non ama non ha conosciuto Dio; solo quando Dio “signoreggia”, è Signore della vita, la relazione d’amore non condanna perché è a Lui (sì, Lui) che ritorna.
Ma può Dio essere neutro? Qualcuno ci aveva già pensato: nel dicembre 2012 in Germania fu il ministro per la Famiglia Kristina Schröder a proporre di far diventare in tedesco grammaticalmente neutro (si ricorderà, loro ce l’hanno) la parola maschile “der Gott“, Dio, premettendogli l’articolo “das“. Tutto si risolse in una bolla di sapone, ma è interessante notare come la pretesa richiesta di questi giorni di rendere neutro l’amore era stata già posta qualche anno fa su Dio: un Dio neutro, quasi impersonale, è più comodo di una relazione, che è viva e mette in discussione. Così si vorrebbe per l’amore, per “un’amore” neutro, alle dipendenze delle decisioni personali. Invece già secoli fa i poeti vollero Amore a signoreggiare la loro vita, con il rischio di mettersi in gioco e anche perdersi.
Novelli stilnovisti, i miei alunni, i nostri ragazzi vogliono questo tipo di amore, che, come ha scritto Benedetto XVI, “promette infinità, eternità, una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere” (Deus Caritas Est 5): Amore senza apostrofo, senza articolo, così, potente.