San Tommaso, le piaghe di Cristo e le ferite di Manfredi

«Ma perché Gesù aveva ancora le ferite dopo che è risorto? Non poteva "rifarsi tutto"?!»
17 Maggio 2018

«Prof, io sono come San Tommaso: se non vedo non credo».

Quante volte dagli studenti sento dire questa cosa: è per loro irrinunciabile il desiderio di vedere, di sentire, di toccare, di avere una prova certa, quel desiderio che spinge Tommaso a dire agli altri Apostoli “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Gv 20,25). La fede per i ragazzi deve necessariamente passare da questo: una prova! Tutti gli alunni conoscono le parole di Tommaso, ma non tutti poi la risposta di Gesù quando riappare otto giorni dopo: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” (Gv 20,29).

«Vabbè prof, ma quindi Tommaso non è beato?».

«Ma certo che lo è» rispondo io «è ovvio che è in Paradiso».

Sempre per quel desiderio di vedere, sentire, toccare, stavolta il mio alunno vuole addirittura “leggere” e tira fuori la Divina Commedia, chiedendo: «Dov’è allora?».

Devo dar loro però una delusione: San Tommaso nella Divina Commedia non c’è. Dante non ha posto, almeno esplicitamente, nell’aldilà l’Apostolo Tommaso né riporta l’episodio che lo vede protagonista e che è così significativo per la Chiesa. Personalmente mi sono sempre stupito di questa assenza: nell’opera della letteratura che più di tutte pone al centro il “vedere” da parte dell’uomo le cose di Dio non è riportato questo brano del Vangelo così forte e rilevante.

Il mio stesso stupore è visibile nelle espressioni dei miei alunni e di quello che ribadisce:

«Quindi avevo ragione io: Tommaso non sta in paradiso!».

Un altro alunno, rimasto fino ad allora pensieroso, non trattiene la sua perplessità:

«Ma perché Gesù aveva ancora le ferite dopo che è risorto? Non poteva “rifarsi tutto”?!».

Il candore dei ragazzi a volte supera di gran lunga la prontezza dell’insegnante nel rispondere e un compagno mi anticipa:

«Pure all’Inferno» – quello di Dante, intende lui, che hanno sotto il naso – «so’ tutti mozzati e squartati, è normale!».

Basta a volte poco per accendere una lampadina ed è lì che mi viene in mente un’altra importante ferita nella Divina Commedia che potrebbe aiutarci a rispondere: prendo allora il terzo canto del Purgatorio.

È quello nel quale Dante sottolinea maggiormente la corporeità: la propria, visto che il pellegrino proietta a terra l’ombra a differenza di Virgilio e delle anime; ma anche quella di Cristo, a partire dal riferimento all’Incarnazione con il “parturir” di Maria (Pg III 39).

Le anime che Dante incontra sono quelle degli scomunicati dalla Chiesa che si pentirono negli ultimi istanti della loro vita e che si trovano in Purgatorio grazie al perdono della Misericordia di Dio. A ben vedere questo passaggio sembra essere stato ispirato al Poeta proprio da quello di Tommaso nel Vangelo di Giovanni, che i versi danteschi sembrano ricalcare.

L’atteggiamento iniziale delle anime è simile a quello degli Apostoli che erano a porte chiuse “per timore dei Giudei” (Gv 20,19): al pari dei pastori della Chiesa, in Dante le anime sono “come le pecorelle” che escono a una a una “timidette” e seguono la prima anche se “lo ‘mperché non sanno” (vv. 79-84); poi quelle si stupiscono e quasi impauriscono nel vedere che “è corpo uman” quello del Poeta “per che ‘l lume del sole in terra è fesso” (vv. 95-96), similmente agli Apostoli che in Luca, al contrario, prendono Gesù per un fantasma mentre lui “ha carne e ossa” (Lc 24,39)

Fra le anime se ne fa avanti una che chiede a Dante se riesce a riconoscerlo:

L’un de’ cigli un colpo avea diviso.
Quand’io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: “Or vedi”;
e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto” (vv. 108-111)

Per farsi riconoscere il re Manfredi mostra a Dante la ferita sul proprio petto, che gli diede la morte in battaglia, gesto simile a quello di Cristo che mostra agli Apostoli le mani e il fianco colpito dalla lancia. Oltre la similitudine del gesto, quello che stupisce è il fatto che le ferite di Manfredi, in verità, non dovrebbero esserci: nell’aldilà dantesco le anime neanche hanno il corpo e, se si mostrano lacerate (“mozzate e squartate” per il mio alunno), lo sono in virtù del contrappasso al quale sono sottoposte, come ad esempio per le mutilazioni dei seminatori di scismi dell’Inferno.

Le cicatrici di Manfredi sono inspiegabili, sono ferite della vita ancora presenti nell’anima dopo la morte, ma proprio per questo esse sono lì per rivelare qualcosa: le ferite di Manfredi sono lì a dire a Dante che la Misericordia Divina raggiunge l’uomo anche se la conversione arriva in punto di morte, come Cristo mostra agli Apostoli e a Tommaso le mani e il costato per invitare l’uomo al cammino dal dubbio alla fede nel Risorto. Gesù mostra le piaghe come a dire agli apostoli: sono proprio io; Dante descrive la ferita di Manfredi come a dire ai suoi lettori: sì, è proprio lui, quell’uomo che sa riconoscere “orribil furon li peccati miei / ma la bontà infinita ha sì gran braccia” (v. 121-122), che se anche il peccato è grande, più grande è la Misericordia di Dio. Attraverso la carne passa una fede che riconosce un Dio oltre la morte, oltre il peccato, ma per credere è necessaria l’esperienza della Misericordia, del perdono che nulla esige, di quella Grazia che scese in terra in quella notte di Betlemme con l’Incarnazione, il “parturir” di Maria.

Solo da questa fede nel Risorto è possibile la salvezza e le piaghe di Cristo e le ferite di Manfredi sono lì a testimoniarlo. Ecco perché nel Vangelo Gesù dice a Tommaso “non essere incredulo, ma credente” (Gv 20,27), frase che riecheggia nelle parole di Virgilio, il quale alle anime stupite per l’ombra di Dante, per quel corpo presente nell’aldilà per volontà divina, aveva detto “non vi maravigliate, ma credete” (v. 97). Come dalle piaghe del Risorto passò la fede di Tommaso, così dalle ferite di Manfredi passa la certa speranza che il sacrificio di Cristo distrugge la morte e dona la vita eterna anche ai peccatori, se pentiti, perché sempre più grande è la Misericordia Divina.

«Vabbè, prof, ma quindi San Tommaso c’è o non c’è?».

Ritorniamo al punto! L’Apostolo Tommaso nella Divina Commedia non c’è ma, come spesso accade, sono proprio i grandi assenti i personaggi che assumono un ruolo centrale nella scrittura di Dante: prova ne è che all’inizio del Purgatorio il Poeta avverte la stessa esigenza di Tommaso, quella di vedere, sentire, toccare, di mostrare che la corporeità è redenta dalla Misericordia di Dio perché più grande del peccato dell’uomo; per questo Dante ripropone la stessa scena del Vangelo mettendosi al posto dell’Apostolo: si potrebbe dire che nell’aldilà dantesco San Tommaso sia proprio Dante, che desidera vedere le cose di Dio, motivo per il quale scrive questa grandiosa opera e compie questo viaggio ultraterreno; e, mettendo se stesso, vi pone ogni lettore, ogni uomo che ha bisogno di vedere, sentire, toccare, ha bisogno dell’evidenza di una ferita nella carne, che c’è pur non dovendoci essere e quindi c’è proprio per lui, perché la possa vedere e in essa riconoscere quella verità prima sperata e ora veduta, perché finalmente possa sentire quello che Manfredi dice a Dante e che ogni uomo, ogni lettore, ogni alunno ha bisogno di sentirsi dire: “Or vedi”.

 

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