«Non c’indurre in tentazione»: la traduzione di Dante

Nel Canto XI del Purgatorio la versione del Poeta sulla questione riaperta da papa Francesco: una supplica al Padre che non misuri la pochezza e la fragilità degli uomini, disarmati di fronte alle tentazioni del maligno
11 Dicembre 2017

Negli ultimi giorni Papa Francesco è ritornato sulla questione della corretta traduzione del Padre Nostro in merito alla sempre discussa sesta richiesta “non c’indurre in tentazione”. Occasione è la modifica della versione francese che in questo Avvento passa da “ne nous soumets pas à la tentation” [letteralmente «non sottometterci alla tentazione»] a “ne nous laisse pas entrer en tentation” [«non lasciarci entrare in tentazione»], modifica in linea con ciò che è avvenuto in altre lingue, come l’italiano “non abbandonarci alla tentazione”.

«Non c’indurre in tentazione» dice il Papa «non è una buona traduzione… sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito» e aggiunge «quello che ti induce in tentazione è Satana».

I Padri della Chiesa, da Cirillo di Alessandria (Commento a Luca, omelia 77) a Giovanni Crisostomo (Commento al Vangelo di Matteo 19,6), e il Magistero della Chiesa (Catechismo tridentino 410-416) hanno da sempre cercato di ben definire la portata di questo versetto evangelico. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ammette la difficoltà di “tradurre con una sola parola il termine greco” che significa “non permettere di entrare in” (cf Mt 26, 41), “non lasciarci soccombere” (§ 2846), ma la questione è sempre stata al centro della riflessione esegetica, soprattutto in tempi recenti, con i cristiani che dopo due millenni di ininterrotta preghiera sentono la necessità di definire la migliore resa del verbo greco εἰσενέγκῃς – eisenénkes, tradotto nel latino della Vulgata con “inducas” (Mt 6,9-13 e Lc 11,1-4).

Tentò a suo tempo una traduzione in lingua corrente della preghiera che Gesù insegnò agli Apostoli anche Dante: le prime sette terzine del Canto XI del Purgatorio ne sono una traduzione poetica, a tratti libera, ma sempre altissima, unico esempio di preghiera recitata per intero nella Divina Commedia. Significativa la scelta di situarla nella seconda cantica, sulla montagna del Purgatorio, come pure Matteo l’aveva posta nel contesto del discorso della montagna, ma soprattutto di metterla in bocca ai superbi, evidenziandone di volta in volta lo spirito di umiltà che la contraddistingue.

Dopo versi che traducono pressoché letteralmente le parole evangeliche, come le ritroviamo nella versione italiana (“O Padre nostro, che ne’ cieli stai“, “laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore“, “Vegna ver’ noi la pace del tuo regno“, “Dà oggi a noi la cotidiana manna“), la terzina che traduce la sesta richiesta è effettivamente quella che risente di una maggiore libertà nella resa in volgare:

Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro
ma libera da lui che sì la sprona
” (Pg XI 19-21)

Il “non c’indurre in tentazione” diventa: non mettere alla prova (spermentar) con l’antico avversario, il diavolo, la nostra virtù, che per Dante è la piena potenzialità delle capacità naturali dell’uomo che attende di essere messa in atto, ma che senza l’aiuto divino è facilmente, con leggerezza (di leggèr), abbattuta (s’adòna) dal male che così fortemente la sprona, la incita.

La preghiera è quindi una supplica al Padre che non misuri la pochezza e la fragilità degli uomini, disarmati di fronte alle tentazioni del maligno. Nel formularla la guida diretta di Dante sarà stato probabilmente San Tommaso che scriveva: «Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, sottrae all’uomo – a causa dei suoi molti peccati precedenti – la sua grazia, tolta la quale egli scivola nel peccato… Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione» (“Commento al Pater”). Già Dante quindi secoli fa aveva compreso questa sfumatura di significato, che «non è Dio a tentare, ma Satana attraverso la “mano libera” che il creatore gli concede» (Benedetto XVI, “Gesù di Nazaret”).

Cimentandosi con una traduzione che evidentemente doveva concepire da zero, il Poeta cerca anche di rendere, così sembra, l’evidente difficoltà di tradurre “et ne nos inducas in tentationem” con la scelta di termini particolari, ricorrendo a verbi insoliti, che non usa quasi mai nelle sue opere. Ad esempio, il verbo “adonare“, che sta per abbattere, opprimere e lo troviamo solo riferito alle anime dei golosi abbattuti dalla pioggia infernale (“che adona / la greve pioggia“, If VI 34-35).

L’altro verbo è “spermentar“, una forma sincopata di sperimentare, che sta per cimentare, mettere alla prova, raramente usato dai poeti del suo tempo, che in tutte le sue opere Dante usa solo nel sonetto “Perché ti vedi giovinetta e bella”. È questo un componimento dedicato a una ragazza, amata dopo la morte di Beatrice, orgogliosa e dura, tanto che con il suo comportamento uccide il povero spasimante, per il gusto di provare se l’amore porta alla morte (“se la vertù d’Amore a morte move“): a lei il Poeta augura di poter “spermentar lo suo valore“, che anche lei quindi provi la potenza tormentosa di un amore non corrisposto.

Mettendo vicino questi due luoghi, Dante sembra ritrarre Dio come un amante che desidera che la propria amata “sperimenti” ciò che egli stesso ha provato, Lui che è stato tentato dal diavolo nel deserto, non perché soccomba al male, ma per capire e resisterne.

Non c’è in Dante rabbia o desiderio di vendetta, ma la volontà che la donna, così giovane, provi un giorno la vertù d’Amore per apprezzare ancor meglio la devozione ricevuta dall’uomo: così Dio vuole che la nostra virtù venga messa alla prova perché l’uomo riesca ad apprezzare la sua Grazia che, come scriveva San Tommaso, lo sosterrà perché poi non cada.

Se nel sonetto giovanile Dante vuole che la donna sperimenti il “valore” d’Amore come avviene a lui, così all’inizio del Padre Nostro dantesco il “valore” era quello di Dio, che ogni creatura deve lodare e al quale deve ricorrere: il valore, dell’Amore o di Dio, cosa quindi non negativa, è qualcosa di talmente forte che riesce a scavare nell’interiorità dell’essere umano, mettendogli di fronte se stesso.

È questo l’ennesimo esempio di come Dante rinnovi il linguaggio amoroso in religioso perché in esso egli trova la misura di quanto vissuto nella fede. Non sfuggirà che per Dante fu quella giovane donna a essere una tentazione, tant’è che nella confessione del Paradiso Terrestre Beatrice citerà esplicitamente la “pargoletta” (Pg XXXI 59): Dante ha conosciuto tentazioni che l’hanno fatto cadere nella selva oscura e sa che è solo grazie a ciò che egli si trova di fronte a Beatrice. Anche Dio “inducit in tentationem” perché sa che solo grazie alla consapevolezza della propria fragilità l’uomo, non più superbo, può rivolgersi e giungere a lui.

Nella sua traduzione del Padre Nostro Dante avverte subito quella difficoltà di tradurre con una sola parola il termine originale, come dice il Catechismo, e ricorre quindi a una perifrasi poetica fatta di parole difficili e insolite, usa termini e immagini che mostrano un Dio che, non solo Padre, è anche un amante che vuole l’uomo libero di scegliere e di tornare o meno da lui, perché è solo quando si trova a spermentar con l’antico avversaro che riconosce la Grazia che lo salva.

 

Una risposta a “«Non c’indurre in tentazione»: la traduzione di Dante”

  1. Angelo Filipponi Filipponi ha detto:

    Complimenti . Si consideri che Dante usa” non spermentar con l’antico avversaro
    ma libera da lui che sì la sprona” !
    Si legga attentamente ! Traduzione e messaggio del Pater di Luca” in http://www.angelofilipponi.com in relazione alla “chiesa” di Antiochia, “provata” da Dio con un terribile terremoto. Buona lettura

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