Le fonti islamiche della Divina Commedia

Con l'inizio del Ramadan non si può non cogliere l'occasione per approfondire il rapporto tra Dante e l'Islam.
13 Aprile 2021

Opera calligrafica di Eyas Alshayeb presso il Centro di cultura italiana Dante Alighieri (Amman)

 

All’inizio del Ramadan di questo anno 1442 è piacevole evidenziare il debito di Dante verso la cultura araba. È di poche settimane fa l’articolo del “Frankfurter Rundschau” che, con chiaro intento provocatorio, taccia Dante di mancanza di originalità, anche riguardo all’Islam. In linea con alcune voci che da qualche anno sostengono una presunta islamofobia di Dante, è recente anche la notizia che in una nuova versione olandese della Commedia verrà omesso il nome di Maometto, come avviene già in molti Paesi arabi che censurano il canto XXVIII dell’Inferno, quando non l’intero Poema.

Dante pone Maometto all’Inferno, luogo a cui è destinati anche Papi, mentre in Paradiso ci sono pagani ed ebrei: non è quindi la diversa fede professata a muovere la rappresentazione di Dante, bensì l’eventuale peccato commesso in vita. Visto con gli occhi di un fiorentino del ‘300 Maometto non è l’iniziatore di una nuova religione, ma uno scismatico e la pena a lui riservata è di avere il corpo orribilmente mutilato, come egli ha diviso ulteriormente la fede abramitica. La descrizione del Profeta dell’Islam è una tra le più realisticamente crude dell’intera Commedia: egli appare dilaniato «dal mento infino dove si trulla», dal mento all’ano, con «le minugia», gli organi interni che gli penzolano fra le gambe (If XXVIII 22-27).

Dante fece il suo viaggio nell’anno 699 dell’era islamica, possiamo dire che la distanza tra lui e Maometto è la stessa che divide noi dal Sommo Poeta, ma a questi è stata molto vicina la cultura araba che nel Medioevo giunge in Europa e dà un enorme apporto alla formazione culturale dantesca: soprattutto nella Vita Nova in astronomia è al-Farghani a guidare Dante alla risoluzione di problemi legati al moto e alle dimensioni degli astri; nella filosofia del Convivio grande peso hanno al-Bitruji, al-Ghazali e ibn Sina, meglio noto come Avicenna; da quest’ultimo deriva molto della metafisica della luce del Paradiso e non stupisce di vederlo tra i personaggi della Commedia: lo troviamo nel Limbo, tra gli spiriti magni insieme al Saladino e Averroé (If IV 129-144). E proprio quest’ultimo, il «più savio» (Pg XXV 63), è il dotto arabo che Dante cita maggiormente in tutte le sue opere.

Se fin qui il debito dantesco al mondo arabo è lo stesso della latinità medievale, potrà forse sorprendere quanto l’Islam possa aver influenzato Dante anche letterariamente. La questione delle fonti islamiche della Divina Commedia ha interessato per secoli la critica dantesca, ma si accese esattamente un secolo fa quando i dantisti erano pronti a celebrare il sesto centenario della morte del Poeta. Con la stessa puntualità degli odierni detrattori, Asìn Palacios (La escatologia musulmana nella Divina Commedia, 1919) segnalò come enorme fosse il debito di Dante verso una serie di leggende (hadîth) relative al viaggio mistico del Profeta nell’Aldilà voluto da Dio, come descritto nella Sura XVII del Corano.

Varie sono le opere di questa letteratura, ma il testo che potrebbe essere stato conosciuto da Dante, come lo è stato da altri autori coevi, è il Libro della Scala di Maometto, con il quale ha in effetti elementi comuni. Del tutto simili sono alcuni contrappassi: medesime pene hanno i ladri attaccati da grossi serpenti e inceneriti e i consiglieri fraudolenti racchiusi nelle fiamme; la pena dei simoniaci conficcati a testa in giù ricorda la pena dei sicari (senza contare che qui il dannato, un papa, è descritto da Dante come «assessin», che è termine proprio di derivazione araba); la stessa punizione a cui è sottoposto Maometto è ispirata agli scismatici, ai quali sono tagliate le labbra e la lingua con delle tenaglie infuocate; altre pene del Purgatorio di Dante possono ritrovarsi nella leggenda araba: interessante anche che il supplizio sia temporaneo e termini dopo due abluzioni, in modo simile all’Eden dantesco. Altri punti in comune sono la topografia del Paradiso, l’ubicazione della Gerusalemme celeste e la divisione dei cieli; l’idea stessa di una guida, Virgilio per Dante come l’arcangelo Gabriele per Maometto, che dia al viaggiatore delle spiegazioni divenendo costantemente spunto per digressioni teologico-culturali.

Ritenere il Libro della scala di Maometto una fonte della Divina Commedia non è certo un sacrilegio artistico, come è stato ritenuto per tanto tempo; anzi, il fatto che Dante potrebbe aver tratto ispirazione anche da un’opera islamica non dovrebbe stupire il suo lettore più delle influenze esercitate dagli antichi greci, la latinità, i poeti provenzali e il Dolce Stil Novo. È un errore ritenere Dante troppo superiore rispetto a qualsiasi fonte, quando in realtà constatare l’apporto di altre tradizioni nel suo bacino culturale non ne sminuisce certamente la grandezza, bensì l’aumenta: pensare che alla Divina Commedia abbiano contribuito greci e romani, pagani e cristiani, ebrei e islamici non le toglie originalità, al contrario le attribuisce universalità e ne fa un’opera in cui le voci di tanti uomini si fondono nelle parole di uno solo, nell’inesausta prospettiva della ricerca della Verità; proprio questo permette a Dante di definire la sua opera come «‘l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Pd XXV 1-2).

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