Tra il caos e le folle che assediano spesso il centro storico di Firenze, è possibile trovare alcune oasi di pace e silenzio, oasi che sono anche ricchissime di storia.
Una è la Badia fiorentina, animata dalla comunità monastica di Gerusalemme. L’altra è il convento di san Marco, crocevia di grandi personalità: qui vissero e operarono sant’Antonino e Girolamo Savonarola, qui sono sepolti il filosofo Giovanni Pico della Mirandola, i poeti Angelo Poliziano e Girolamo Benivieni. E qui è sepolto anche Giorgio La Pira (1904-1977), figura grande del cristianesimo del Novecento, ‘sindaco santo’ di Firenze, umanista, studioso, padre costituente, profeta di pace in tempi di muri e cortine di ferro.
A San Marco — che custodisce anche gli affreschi straordinari del Beato Angelico, tesoro unico dell’arte rinascimentale — La Pira abitò per diversi anni, rimanendo poi sempre legato al convento domenicano (fino a divenire terziario dell’ordine).
Per chi volesse farsi interrogare dalla grandezza dell’uomo politico, siciliano di origine e toscano di adozione, per chi volesse sfiorarne la tunica del mantello, lasciandosi mettere in discussione dalla sua azione e dalla sua vita contemplativa, san Marco è il luogo in cui molti fili si annodano, a partire da quello sguardo profetico e universale, che abbraccia convintamente il mondo (e che in parte egli derivava dal Savonarola), nutrendosi di una passione per la giustizia e l’equità che oggi abbiamo smarrito: «Il documento inequivocabile della presenza di Cristo in un’anima ed in una società è stato definito da Cristo medesimo: esso è costituito dalla intima ed efficace ‘propensione’ di quell’anima e di quella società verso le creature bisognose!» (L’attesa della povera gente, 1950).
C’è un’eredità che vibra in san Marco, tra bellezza, azione e preghiera, da cui La Pira si fece ispirare, a partire dalle opere del beato Angelico (si trova in rete un vecchio filmato Rai in cui egli illustra la notissima Annunciazione del corridoio Nord), per impegnarsi nel concreto: i movimenti per la pace, la lotta contro la disoccupazione, il radicalismo evangelico che diviene partecipazione per i poveri, l’appello incalzante al potere politico. E poi il silenzio, il ritirarsi in sé, il primato dato a Dio per un uomo immerso nel mondo, convintamente laico e sinceramente cristiano: «Il nostro tempo è maturo per ascoltare queste voci che richiamano all’esercizio di una ascesi anche austera. La verità, la carità. La pace, la mansuetudine, il gaudio, la speranza non sono frutti della carne e del sangue; sono frutti dello Spirito di Dio. Appunto verso essi – così ricchi di consolazione e di amore – si volge con tanta ansia l’umanità affaticata di oggi (Gerarchia dei valori, 1947).
Ho sostato più volte in quel gioiello di arte e spiritualità che è san Marco: non si può, credo, terminare la visita agli affreschi rinascimentali senza entrare nella chiesa e fermarsi davanti alla tomba di La Pira: perché altrimenti la storia diviene archeologia e non si fa pungolo per l’oggi, tradendo molto dell’eredità di uomini di grande valore.
Visitare i corridoi di san Marco e sostare nella chiesa: il viandante passerà così dall’essere turista a essere pellegrino, magari traendo spunto dal coraggio, dalla su fortezza, dalla coerenza esigente di La Pira, soprattutto guardando con doveroso sospetto quanti si propongono di edificare la ‘città dell’uomo’ servendosi (mercificando) della ‘città di Dio’, e non servendo, invece, l’umanità che è presenza di Dio nella storia.
In questi giorni di conflitti e muri, di competizione e di violenza diffusa, farà bene ricordarci che è vocazione cristiana tentare di costruire un mondo in cui ai muri si sostituiscano i ponti: «L’unità della Chiesa è ancora un “fatto di prospettiva”: è vero: ancora restano tanti spazi da superare nel cammino verso di essa: ma il cammino è già iniziato: la convergenza è già in atto: il seme è già posto nel solco già aperto: possiamo, perciò, dire col Signore: levate capita vestra et videte! E la pace dei popoli? E la emergenza e la unificazione dei popoli? […] Questo “punto omega”, polarizzatore della storia presente del mondo; che la preghiera di Cristo mostra (in certo senso) come punto finalizzatore della storia del mondo; questo porto di speranza e di gioia dei popoli che la preghiera di Gesù ci indica, ha operato in questi anni?»: così La Pira nel 1969 scriveva a Paolo VI, amico carissimo (più di mille le sue lettere a Montini), in un assillo per le cuciture dei mondi e non per gli strappi e le ferite. Parole che oggi sembrano così inattuali, assuefatti come siamo ai messaggi che fomentano le logiche del conflitto perenne e del nemico da cercare — nel micro come nel macro-sguardo.
Ma perché il nostro tempo non sa darci cristiani esigenti e testimoni credibili come La Pira, e come altri in quella Firenze degli anni ’50 e ’60 che fu crocevia di spiriti di fuoco: Milani, Balducci, Turoldo, Facibeni, Vannucci?
E’ una domanda che non trova risposta, sembra che il braciere che le guerre, non i giochi olimpici, tengono acceso , per un crescendo di animosità umana dove la Parola Pace non ha più senso proferire, ogni giorno tale speranza si dissolve come neve al sole, perché sono innocenti le vittime e sempre più estesi sono i territori falcidiati da distruzione. Suona flebile la voce della Chiesa, è una diffusa apatia che sovrasta la speranza, una impotenza a fronteggiare ostilità che sembrano riempire il cuore di uomini i quali decidono le sorti di popoli. Anche Dio appare non
voler interferire nell’umana
irragionevolezza a persistere nei propri errori