Beati i depressissimi, saranno consolati!

Il Vangelo delle beatitudini della festa dei santi letto con un pezzo del rapper romano Tarek Jurcich (in arte ‘Rancore’).
1 Novembre 2018

La liturgia della solennità di Tutti i Santi trova tradizionalmente il proprio centro nel vangelo delle Beatitudini. Queste otto parole più una (Mt 5,1-11) dovevano suonare al tempo stesso sconcertanti e credibili per i discepoli che ascoltavano. Sconcertanti perché paradossali: rovesciano in se stesse ogni logica (solamente) umana di felicità. Credibili perché pronunciate da un uomo che le viveva e testimoniava in sé tutte: dunque davvero buona notizia. Un uomo con il quale condividevano tempo, familiarità, amicizia, strade, relazioni sociali. Nove parole che hanno la loro unità nella vicenda umana di Gesù, e che i suoi ascoltatori potranno sperimentare-riscoprire (una ad una) nella propria esistenza. Anche nella vita del fratello in umanità/nella fede: che in quel momento diverrà per loro segno, testimonianza di una gioia possibile e profonda. ‘Santo’: perché separato (sanctus) dalle comuni logiche di successo e benessere.

Segno di possibilità di una di queste parole promettenti ci è offerta in questo tempo anche dal rapper romano Tarek Jurcich (in arte ‘Rancore’): un artista che ama condensare nei suoi testi e musiche i vissuti della propria esistenza, senza maschere. E con la stessa trasparenza rapportarsi (anche personalmente) con il suo pubblico di tutte le età, a partire dai giovanissimi.

‘Depressissimo’ non è il primo singolo di Tarek nel quale emerge la profondità del suo scavo interiore, della propria ricerca capace di farsi – all’occorrenza – lotta spirituale. Esso ci offre oggi la possibilità di penetrare con una prospettiva nuova la ricchezza inesauribile di una delle nove beatitudini pronunciate e vissute da Gesù, una delle innumerevoli rifrazioni che – come da un prisma – scorgiamo nella luce. Si tratta, in modo speciale, della parola donata ai ‘piangenti’ (Lc 6,21) e agli ‘afflitti’ (Mt 5,4): tutti coloro che hanno motivo di gemere sotto un peso troppo grande per essere portato senza lacrime.

Tarek incrocia con disarmante trasparenza il proprio doloroso stato d’animo sulla propria arte: “i rapper che ti piacciono sono scarsissimi! Fare i soldi è l’unico loro talento artistico! Talento che non ho, io sto malissimo…/ una major mi ha detto trovati un altro lavoro in questo rovo nerissimo da cui non ci si districa/ quando sento le canzoni in radio voglio piangere/ sembrano inquinate da bassissime frequenze/ la musica è libera quanto un’ora d’aria in carcere”. Sulla propria vita: “Un giorno stavo solo, ho scritto alla mia depressione…/ti vedo ancora lì seduta/ il tavolo è quello…/ fuori dalla finestra sempre il solito Tufello/ io che per arrotondare rischio ancora la bevuta/ aveva ragione la major lei mi dirà/ dovrei lasciare tutto, trovarmi un’attività/ a 27 anni non è mica prestissimo/ e papà, sono già 12 anni che non ci sta.. si sa…/ ma lei è fatta così, può stare qui tutta la sera/ nella lunga lista dei fallimenti di una carriera/ e se l’idea della mia libertà è l’ennesima barriera/ io l’esempio della malattia di questa nuova era/ a volte prima di dormire faccio una preghiera/ ringraziando ancora che il mio corpo non si è suicidato”. Con uno sguardo inquieto proiettato su orizzonti sociali, universali, e persino cosmici-metafisici: “il cielo è limpidissimissimo, sei tu che piovi…/ il mondo sarebbe bellissimo, ma siamo vivi/ e tu ti credi evolutissimo se ti commuovi/ lunghissimo il percorso nel giro dell’ellissi/ in cui gira quel geoide su cui siamo tantissimi/ disturbo paranoide/ umanità numerosissima che osserva zitta una scurissima eclissi”.

Anche il video è sapientemente costruito come intimo intreccio con i temi affrontati nel testo: le veline dallo sguardo vuoto sedute sul divano; l’happy(?)-hour a bordo piscina dei giovani-bene, inseparabili dagli ormai iconici calici-in-mano e risate-sproporzionate; la lacrima che scorre dagli occhi e sulle guance dell’artista animandosi in un canto che si fa lamento, gli interni (desiderati/reali)-esterni della sua casa, i giovani rapper che scimmiottano l’immancabile dab-dance.

Ma è nella terza strofa, dopo la preghiera notturna appena accennata in precedenza, che Tarek conduce il suo ascoltatore nelle profondità evangeliche nel modo più sorprendente e inatteso. Persino il videoclip cambia inaspettatamente location: il viaggio in auto dei giovani rapper, tra strade e incroci metropolitani, trasporta Rancore dalle periferie romane del Tufello a quelle milanesi di San Donato, scaricandolo di fronte alla facciata della chiesa parrocchiale di Santa Barbara a Metanopoli.

La ricerca della solitudine e del silenzio di una chiesa, nell’orario che risveglia ricordi di un’infanzia lontana di una distanza lacerante (allora papà c’era ancora…), trasfigura nella viva percezione della compagnia di Cristo: “Io vado tutti i giorni in chiesa verso l’una e mezza/ l’orario che ricorda quelle suore in quella mensa/ in quelle ore è sempre vuota, io mi sento a casa mia/ e Gesù Cristo è l’unico che mi fa compagnia”. Interiore, sì, ma umanissima e fisica al contempo: lo sguardo, la parola che invita a guardare la realtà da un punto di vista diverso da quello che ha condotto a sconforto e disperazione.

Il male c’è, e si serve anche dell’arte. Ma è male del quale Gesù stesso è stato vittima: egli lo porta nella propria carne, come nella carne di ogni suo fratello e sorella in umanità. Solo la mano che ha provato cosa significhi essere trafitta da coloro che usano per il male le parole pronunciate con amore può carezzare, donare consolazione, e al contempo scuotere, rovesciare la prospettiva dell’interlocutore: “mi guarda, mi dice che la cosa è un po’ diversa/ il male si è vestito con due stracci di poesia/ si leva il chiodo da una mano e mi fa una carezza/ poi mi dà uno schiaffo all’improvviso che mi spazza via/ mi parla, mi dice: ‘’Questo mondo è in mano a un sadico/ che usando l’ironia ha conquistato il tuo linguaggio/ forse hai interpretato tutto in modo troppo pratico/ di farsi le domande vere non si ha mai il coraggio”. L’artista è perdente, sì, ma della stessa perdita che anche Cristo ha portato su di sé. Non ha seguito le logiche del facile successo e dell’apparenza: perciò gode la familiarità speciale con Colui che per porre le domande vere agli uomini è arrivato sino in fondo, pagando di persona.

Gesù mi suggerisce: “Devi uccidere la serpe/ devi farlo in fretta, hai tutto quello che ti serve/ qualcosa resterà con te per sempre’’: c’è una tentazione da superare e vincere, proprio da parte di quel “sadico” che vorrebbe e potrebbe regalare successo e benessere in quantità a chi sceglie la via più semplice. Nel profondo dell’animo di Tarek è la prova tremenda: che vorrebbe spingere a considerare inutili i propri sforzi, la propria fatica, la propria carriera, i propri testi; che pure hanno risvegliato domande e desiderio di pensare e amare in molti cuori che ne portavano – magari inconsciamente – la sete (perché ‘’L’uomo non è pianta né animale’’).

Non il successo mediatico, il potere e la ricchezza determinano la significatività o l’insignificanza di un lavoro, di una fatica, di una vita. Nessuno più di Gesù l’ha sperimentato. Tanti ascoltatori di Tarek lo sanno bene: ma la serpe si annida dentro, nel proprio ego. Lì inocula il suo veleno più pericoloso: con le parole dei romanzi di J.K.Rowling, è l’ultimo ‘horcrux’, quello che per essere distrutto richiede al protagonista la disponibilità a perdere la propria vita, a donarla per tutti gli altri.

“Hai tutto quello che ti serve”, gli dice Gesù: la sua amicizia, la sua stima, il suo esempio, la forza della sua mano (forte come era stata un tempo la mano del padre di Tarek: anzi, più forte). “Ma quando dico che non voglio questo ruolo/ che mi dà uno schiaffo più forte del precedente/ ma poi mi prende al volo/ mi dice che nel coro con me/ sarà presente lui personalmente perché…”: la tentazione di abbandonare tutto, di trovare un’altra attività seguendo il consiglio della major esiste (è la tentazione di Geremia, di Giona). Ed ecco che la mano dell’amico di nuovo schiaffeggia fortemente, ma poi abbraccia: Tarek non troverà altrove la forza di continuare a cantare e interpellare le coscienze, ma in quella compagnia (da quel momento il ritornello non sarà più in prima persona singolare, ma plurale!), in quella consolazione. Come Giacobbe: l’artista lotta con un uomo, lotta con se stesso, al contempo accettando di lottare anche con Dio. E poi insieme a Dio.

E’ la beatitudine di coloro che portano il dolore, ma vengono consolati (paraklethésontai) da Dio stesso, dal Paraclito che è il suo Spirito nel cuore dei suoi amici. Di coloro che piangono, ma rideranno (Lc 6,21): più ancora, sorrideranno, godendo della gioiosa presenza di quella consolazione e di quel consolatore, rileggendo in lui tutta la propria storia, lasciando che sia lui a tergere ogni lacrima versata. È riconciliazione e accoglienza anche di sé, del proprio dolore, del proprio limite: in un abbraccio più grande, questa volta liberante e salvifico. Capace di aprire alla fiducia e alla speranza: al “noi”.

 

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