È un progetto interessante perché coniuga valori ed efficienza, collaborazione tra enti pubblici ed enti civici, dialogo tra cattolici e laici, collaborazione tra i rappresentanti di diverse religioni.
Si svolge a Roma, quindi in una regione in cui la sanità è segnata da gravi inefficienze e deve fare i conti con un deficit pauroso. Eppure il progetto è nato proprio qui, all’interno della Asl RM E, che ha il suo centro in una struttura nata nel 727 per accogliere i pellegrini che venivano a visitare la tomba di Pietro: l’ospedale Santo Spirito che non a caso sorge – come direbbero a Roma – all’ombra del Cupolone. L’obiettivo è di rendere più efficace e umanizzante l’accoglienza, nelle strutture sanitarie, di persone di origine straniera che appartengono a culture e religioni diverse da quella cattolica.
Le motivazioni sono prima di tutto culturali: si tratta di rispettare principi fondanti della civiltà occidentale, come il principio di uguaglianza, in questo caso integrato con il principio del riconoscimento della differenza. Poi sono deontologiche: cultura e prassi dell’accoglienza fanno parte del bagaglio etico di medici e infermieri. E infine sono di opportunità: le conflittualità che spesso si creano tra il personale sanitario e i malati stranieri – a causa della difficoltà di comunicazione o dell’atteggiamento di difesa che questi ultimi assumono quando non si sentono rispettati – fa nascere quella che viene definita “medicina difensiva”, inefficiente e molto costosa. I malati infatti non si fidano delle diagnosi e delle cure, vanno da altri specialisti, richiedono altri esami…
Tutti abbiamo diritto a ricevere le cure necessarie, ma sappiamo che non si curano dei corpi, bensì delle persone, fatte anche di psiche e di spirito. Per questo è importante tenere conto che sono diversi il modo di concepire la malattia, la morte, la salute, la gravidanza, la vita in generale. Non è solo la questione delle diete o delle abitudini alimentari che alcune religioni impongono (oltre agli ebrei e ai musulmani anche gli avventisti rifiutano la carne di maiale, ad esempio, e i Sikh sono vegetariani); c’è anche la necessità di permettere al malato di rispettare le feste religiose il giorno di riposo, che per alcuni è il venerdì, per altri il sabato, per altri la domenica; di celebrare riti funebri che spesso cozzano contro la nostra burocrazia (secondo la fede Bahà’ì le salme vanno lavate rispettosamente, profumate con acqua di rose e avvolte in un telo di stoffa bianca mai usato prima; per i musulmani la salma va lavata tre volte); di permettere alle donne che lo desiderano di essere visitate da medici donna; di trovare il modo giusto per ascoltare i sintomi, ma anche per comunicare diagnosi e terapie; di permettere ai malati di avere accanto a sé un assistente spirituale della propria religione, cosa spesso impedita dalle regole sulla privacy e soprattutto dalla rigidità degli orari, che non tengono conto del fatto che spesso si sta male e si muore fuori orario.
Il progetto della Asl Roma E è iniziato nel 2010, dopo che l’Audit Civico di Cittadinanzattiva aveva reso visibile questo problema, di cui già in molti si erano accorti. È stato costituito il Laboratorio per l’Accoglienza delle Differenze e Specialità culturali e religiose, di cui facevano parte referenti della Asl, rappresentanti delle principali confessioni e comunità religiose presenti nella capitale, associazioni civiche e di volontariato, tra cui il Tavolo interreligioso, Religions for peace, Avo (Associaione volontari in Ospedali) e il Cesv (Centro di servizio per il volontariato del Lazio). Insieme, sono state individuate delle linee guida, o meglio delle raccomandazioni, molto concrete, per operatori sanitari e volontari. Il libretto si intitola “L’accoglienza delle differenze e specificità culturali e religiose nelle strutture sanitarie ospedaliere e territoriali della regione Lazio” e si trova su internet a questo link.
Il terzo passaggio è stato la costituzione di un albo di assistenti e interlocutori religiosi accreditati, a disposizione di chi viene ricoverato nel polo ospedaliero del Santo Spirito. L’ultimo passaggio realizzato è stato la formazione per i volontari e gli operatori che operano nelle strutture sanitarie del Lazio. Il prossimo obiettivo è l’apertura di un luogo di “preghiera e apertura al silenzio”, in i malati possano ritirarsi per meditare e pregare senza essere disturbati, sul modello di quelli già esistenti in altri ospedali italiani.
Gli stranieri in Italia sono circa il 7% della popolazione, compresi i comunitari, ma a Roma raggiungono l’11%, che significa 380mila persone circa. Il 53% è costituito da cristiani, il 32% da musulmani, il 2,6% da induisti, il 2% da buddisti e altre religioni sono presenti in percentuali minori. Il nostro non è un paese molto accogliente: come si legge nell’ultimo rapporto Caritas Migrantes, le realtà più aperte sono le Caritas stesse, le parrocchie, il volontariato laico e cattolico. Speriamo lo diventino anche gli Ospedali, che hanno il dovere di difendere il diritto alla vita, che passa attraverso il diritto alla salute.
La pigrizia culturale ci spinge ancora a pensare che siamo un paese unicamente e tipicamente cattolico – anche se Roma è probabilmente la città più secolarizzata del mondo. Umanizzare le cure, rispettare il diritto alla salute, accogliere le differenze culturali e religiose anche in questo ambito non può che renderci un Paese migliore, perché più ricco di spiritualità.