Qualcosa sul mio Cammino di Oropa

Qualche giorno su un lungo cammino, verso un santuario mariano, tra incontri, paesaggi, conversazioni, silenzio, preghiera...
9 Settembre 2020

Sentivo da tempo il desiderio di fare un altro lungo cammino.

Ero fermo al 2018, quando unii La Verna con Assisi modulando i miei passi sui passi dell’Appennino e su quelli di Francesco.

Quest’anno il virus e la serrata, i movimenti interrotti o impediti, la prudenza e la voglia di mare mi avevano portato a porre in un cassetto il progetto di rimettermi in marcia. Non sentivo di avere il giusto allenamento, mi preoccupavano le restrizioni sanitarie (ostelli e conventi chiusi, distanziamento fisico, prenotazioni obbligatorie da fare con largo anticipo).

E invece.

Invece a fine agosto trovo una manciata di giorni adatti per un cammino: escludo quelli troppo lontani da dove abito, per evitare spostamenti con tanti mezzi. Escludo quelli già fatti, così come quelli troppo lunghi: non è tanto il tempo che ho.

Qualche telefonata mi fa capire che i cammini più noti, tra quelli brevi, sono affollati: quest’anno molti sono in cammino, spesso per la prima volta.

Poi, trovo su facebook qualche foto e una descrizione di un cammino che una persona amica ha fatto: il Cammino di Oropa.

Conosco Oropa, è un imponente santuario mariano sulle Alpi biellesi. Un luogo ricco di storia e devozione, di bellezza e di fascino.

Mi informo: scopro così che il Cammino di Oropa è recentissimo: è stato tracciato l’anno scorso da Alberto Conte, il fondatore di Movimento Lento. Scopro, inoltre, che è quello che cerco per lunghezza: 4 tappe, dai 15 ai 20 km. Ed è vicino a casa, a poco più di un’ora di auto. E poi c’è la meta mariana: di tutti i cammini che ho fatto, non c’è mai stato un percorso mariano, che forse, in questo frangente, farebbe bene alla mia fede. Mi procuro la guida, studio il percorso: decido di partire. Chiamo, prenoto, faccio la zaino.

Arrivo a Santhià, la cittadina da dove parte il cammino.

Ho poche aspettative, lo ammetto: sia quel che sia, il cammino sarà breve ma completo, delineato ma, per me, pure un po’ improvvisato: voglio lasciarmi sorprendere. So che accade sempre. Mi porto dietro qualche domanda, qualche dubbio, qualche decisione su cui meditare. Questa volta il libretto di meditazione sarà la Regola di san Benedetto: proverò a capire il nocciolo di quella Regola che ha contribuito al passaggio tra epoche, 1500 anni fa… passaggio tra epoche come il tempo in cui stiamo vivendo.

A Santhià incontro Mario, instancabile e gentile animatore del pellegrinare tra Francigena e Oropa, che mi dà la credenziale: anche qui, come altrove, c’è un ‘documento’ che dice chi sono, su cui apporre i timbri delle varie tappe.

Alloggio in un albergo che ospita anche i pellegrini, soprattutto perché l’ostello di Santhià, che è pure alloggio per chi percorre la via Francigena, è chiuso a causa della pandemia. Mi dicono gli albergatori che si devono ringraziare i pellegrini: in tempi di chiusura e scarsi movimenti, il Cammino ha portato clienti, che sono stati un refrigerio per le attività economiche locali, le quali hanno pensato a soluzioni ad hoc proprio per chi è in cammino. Lo scoprirò nei giorni successivi: piccolo borghi rurali o montani del Piemonte provano a ripartire anche grazie al Cammino di Oropa, che, come capita ovunque si spostino le persone, aiuta l’economia locale, spesso ai margini dei grandi investimenti. È la provincia italiana, quel tessuto di case, vie, volti, storie, tradizioni che fanno la ricchezza del nostro paese e che ha pagato un prezzo altissimo al nuovo secolo, tra spopolamento, perdita di identità e cattive amministrazioni.

Parto al mattino della domenica, da solo: ma so già che non arriverò solo. La prima tappa, da Santhià a Roppolo, è sul percorso (in direzione contraria) della via Francigena che scende dalla Val D’Aosta in direzione della Pianura Padana e poi dell’Appennino. Tra campi, rogge e prime colline si arriva al piccolo borgo che domina il lago di Viverone. È un passeggiare tra paesaggi rurali di granoturco e vigne.

Incontro altri quattro pellegrini, da Genova, che come me compiono il cammino: Giovanni, Valentina, Stefano, Lucia. Mi saranno compagni fino alla meta, condividendo passi e soste, a partire dalla cena del primo giorno: nell’unica trattoria del luogo, un invito a vivere insieme il pasto: appunto, a farci compagni, cum panis

Incontro anche pellegrini sulla via Francigena, con cui scambio qualche parola, soprattutto perché alloggio, come loro, alla Casa del Movimento Lento.

Qui ascolto Alberto, che ha letteralmente inventato il cammino, con competenza, professionalità, coraggio e forse ‘profezia’. Perché è indubbio che lo stile di vita moderno ha un lato ‘dis-umano’ che allontana dalla natura, dalla vita equilibrata, dai ritmi lenti, dalle relazioni autentiche: valori da recuperare, da rimettere nelle nostre vite accelerate. Valori che Alberto vuole trasmettere a quanti passano da casa sua, a quanti chiedono consigli e suggerimenti sul camminare, che diventano indirettamente anche consigli e suggerimenti sul vivere.

Forse che la pandemia non ci ha ricordato cosa stavamo perdendo, cosa dobbiamo recuperare nel nostro quotidiano?

Da qui il crescente successo dei cammini, che questi mesi imprevedibili hanno letteralmente fatto esplodere.

La strada è sempre maestra, nelle sue bellezze e nei suoi incontri: chi si mette in viaggio è animato da motivazioni diverse e, devo dire, pochi sono quelli che hanno motivazioni religiose. La strada è metafora delle nostre società, ed è un bene che sia così: ognuno può mettersi in cammino con ragioni proprie, differenti e uniche: nella differenza e nel dialogo c’è ricchezza, c’è scambio fecondo. Ho sempre qualcosa da imparare, ho sempre imparato qualcosa da chi ho incrociato nel cammino, che sia mosso da motivazioni simili o diverse dalle mie (ammesso che io sappia poi bene quali ragioni mi spingono). Alla base, come in ogni relazione, vige il rispetto: durante i cammini ne ho sempre trovato tanto.

Dio non ha bisogno dei timbri e delle etichette. Ed è bello, a mio avviso, che sia stato un uomo come Alberto, animato da motivazioni varie, apparentemente laiche, da quanto intuisco, a pensare e disegnare un cammino che porti a Oropa. Chi cerca una vita autentica, chi cerca un’umanità autentica, è nel sentiero dello Spirito.

Il giorno successivo il percorso prevede di arrivare a Sala Biellese, passando anche per Bose: così il Cammino di Oropa unisce la spiritualità tradizionale, quella dei grandi santuari della Riforma tridentina, con le esperienze frutto del Concilio. In entrambi i casi, uomini e donne alla ricerca del volto autentico di Dio, con doni, ricchezze, limiti, fragilità. Tra colline e boschi della Serra Piemontese, un paesaggio nuovo mi si para davanti. Attraverso borghi come Magnano, mi fermo a un bar dove la gentilezza è di casa.

Arrivo a un campeggio, dove l’anno scorso alcuni giovani si sono buttati nell’avventura di aprire un luogo di vacanza che sia anche di gioco per adulti: perché, mi dice uno di loro, gli adulti non sanno più giocare, se non ai videogames. Invece, c’è una dimensione ludica che nella natura torna a riaffacciarsi prepotentemente: il gioco rafforza i legami, diverte, ci fa un poco rispolverare il nostro essere bambini. Sono quattro giovani pieni di idee, iniziative, coraggio: di questi ha bisogno il nostro paese, se solo avesse più fiducia… ragazzi che, con un ristorante vicino, hanno approntato tutto per i pellegrini, compreso un omaggio che è segno di attenzione vera e gratuita.

Ragazzi che sono riusciti, con volontà e tenacia, a portare un po’ di vita nella provincia piemontese.

Nel corso dei chilometri nasce spontaneamente una tela di relazioni con chi mi è compagno: con Giovanni, veterinario in pensione, nonno felice, uomo buono, che crede nella polis, tanto da fondare un’associazione per guidare la gente a scoprire le bellezze di Genova, ma a piedi.

Con Stefano e Valentina, coppia in marcia, lontani per qualche giorno dai loro numerosi figli, sempre però ‘monitorati’, soprattutto quando arriva una brutta notizia e il primo pensiero è come comunicarlo alla piccola Emma, come custodirla fino al loro arrivo a casa: è la giusta protezione, la consapevolezza che essere padre e madre non significa evitare il dolore ai figli, ma accompagnarli nell’affrontarlo. Sapendo però, al tempo stesso, che prima dei figli viene la coppia, che necessita di momenti propri: è un ordine di fattori che talvolta tendiamo a dimenticare, perché se la coppia si prende cura di sé, saprà prendersi cura anche dei figli.

Con Lucia, convalescente da un intervento chirurgico, piena di energia e di tenacia, a dispetto dell’età matura, appassionata di tutto ciò che la vita offre di bello, da gustarsi e godersi.

Tutti al loro primo cammino, con il desiderio di scoprire cosa racchiude questa esperienza di cui hanno sentito parlare, di cui hanno sentito il desiderio. Sono sprazzi, fotografie intime che scopro, tra un caffè e una salita, tra un aperitivo e una cena, tra una sosta alla fontana e un aneddoto, tra fatica e riposo.

La terza tappa ci porta al santuario di Graglia, uno dei santuari lauretani d’Italia. Il cammino inizia a salire, la quota è alta, lasciamo le colline trapuntate di vigneti per affrontare le prime balze alpine, con qualche animale nei pascoli, come asini e mucche, che ci accompagna.

Graglia domina la pianura: un santuario posto a veglia di quello che accade sotto, mentre nei borghi vicini si muovono uomini che sembrano usciti da un altro tempo: uomini con il bicchiere di vino in mano, uomini dalle mani callose per il lavoro nei campi, uomini che con garbo domandano e danno consigli sulla strada: è il pudore delle terre contadine, di chi è disponibile a dare una mano nell’ombra. E insieme donne che riposano all’ombra dei cortili e delle aie delle cascine, donne che allevano galline e anitre, che salutano con simpatia il viandante, che portano a passeggio i nipotini: reti di comunità dentro cui si muovono le famiglie, pur nelle fatiche che il vivere in montagna comporta per tutti.

A Graglia trovo la prima Messa del cammino: poche persone, forse dieci, con un sacerdote che si ‘dimentica’ la mascherina alla comunione. Forse qui non hanno avuto contezza piena del virus, forse sono uscite nuove disposizioni che non conosco. Ammetto che questo fatto mi turba un po’… sarà la cena, nel ristorante del santuario, a riportare serenità: buona cucina e accoglienza speciale per i pellegrini.

Alla sera, sul terrazzo del santuario che guarda la pianura tinta dai colori del tramonto, prendiamo un po’ di fresco, arrivando a parlare del dramma del Ponte Morandi, che i quattro genovesi hanno vissuto sulla loro pelle, quel ponte su cui sono passati centinaia di volte. Quel ponte simbolo di un paese dove la mediocrità, il disinteresse e l’egoismo di alcuni diventano tragedia; ma quei disvalori sono pure compensati dalla laboriosità e dalle responsabilità di altri.

L’ultimo giorno, dice la guida, è il più impegnativo: si sale ai 1200 metri di Oropa, compiendo un lungo sali e scendi, che ci porta a Sordevolo, paese famoso per una grande sacra rappresentazione della Passione, che ogni cinque anni vede all’opera decine e decine di persone, da ben duecento anni.

Il sentiero si fa aspro, i boschi ci proteggono dal sole, i pascoli indicano che si sale: la fatica si fa sentire e così, con quella libertà che solo la strada concede, a turno iniziamo a domandare una sosta, per bere, per riposare, per riprendere fiato. È la condivisione della fatica, la capacità di chiedere aiuto, la comprensione che insieme è più facile.

Alcuni cartelli, verso la meta, preparano il pellegrino all’arrivo: raccontano la storia del santuario, le sue origini e il suo sviluppo, la devozione di molti, il senso del pellegrinare. Mi stacco leggermente dagli altri: sento il bisogno di avere un po’ di silenzio, per gustare l’arrivo, per riannodare i pensieri, per rendermi consapevole della meta.

Anche gli altri, vuoi per la fatica, per l’emozione, per il senso dell’arrivo, per qualche ragione personale, si fanno silenziosi.

Ma arrivati all’ultima curva ci aspettiamo: insieme usciamo sulla strada per trovarci di fronte al grande santuario mariano. È emozionante, anche se i giorni di cammino non sono molti: ma la meta indica sempre che, passo per passo, ce la si può fare. Che ce l’abbiamo fatta.

Dopo le foto di rito, entriamo nel grande abbraccio che i chiostri del Santuario aprono ai fedeli. Varchiamo la soglia della Basilica che custodisce la statura della Vergine di Oropa: sento vivo il bisogno di inginocchiarmi, con lo zaino e le bacchette in mano, e pregare, affidando a Maria volti amici, situazioni, persone che mi hanno chiesto una preghiera. E affidare anche me stesso a quella tenerezza materna che ho riscoperto nei giorni del cammino.

Sono istanti di silenzio e preghiera, di gratitudine e domanda.

Ci si ritrova fuori dalla basilica; camminiamo per i chiostri, saliamo alla Basilica nuova, chiusa per restauri: avrebbe aperto pochi giorni dopo, per il 400° anniversario dell’Incoronazione della Madonna, rimandata all’anno prossimo. Ammetto che il mio scetticismo mi fa un po’ sorridere di questi riti, ma ho capito che davvero ognuno ha i suoi sentieri per arrivare alla meta, i suoi tempi, i suoi modi… per cui alla fine mi scopro un po’ dispiaciuto di non poter assistere al rito.

Il tempo di un aperitivo e già i miei compagni sono pronti per scendere a Genova. Io, invece, mi fermo una notte. Ci salutiamo già con un po’ di nostalgia e dispiacere, con la promessa di non perderci di vista.

Il sole tramonta sul santuario, i pellegrini lasciano la Chiesa, una profonda pace scende sui chiostri, modulato dalle rondini che volano nell’ultima luce e dai pochi ospiti del santuario.

All’indomani la Messa mattutina e la visita alle cappelle del ‘sacro monte’ segneranno il mio congedo, il mio tornare a casa. Raccolgo pensieri e impressioni; della Regola di Benedetto mi ha colpito la durezza mitigata dall’equilibrio: Dio non si manifesta mai negli eccessi che allontanano dall’umano. E poi qualche forma di regola, nelle differenze di vita e vocazione, risulta necessaria, soprattutto in un tempo come il nostro.

Riecheggiano le parole della Trasfigurazione: c’è sempre la tentazione di alzare tre tende e fermarsi sul monte, dove si sta bene. Ma la vita, lo sappiamo, scorre là sotto… e così devo scendere dalla montagna, questa volta non solo in senso metaforico. La tenda, in fondo, è da innalzare dentro di noi, grati e ricchi di quanto la salita al Tabor ci ha fatto conoscere: e questa volta, là in cima, c’era anche la Madre.

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