Possono esistere dei monaci di strada? Monaci che si occupano dei poveri? Che pregano nelle case delle persone? Effettivamente si tratta di mettere insieme caratteri evangelici molto distanti tra loro. Ma esiste anche questo. Siamo in veneto, tra Caorle e Portogruaro, appena a nord di Venezia. Da oltre trent’anni un pugno di monaci e monache ha trovato modo di tenere insieme preghiera, servizio, evangelizzazione, in una forma davvero in “uscita”. La piccola famiglia della resurrezione, più conosciuta come comunità di Marango.
Tutto ha inizio con un pellegrinaggio in terra Santa a Gerusalemme in cui don Giorgio Scatto, il fondatore, viene a contatto con la comunità di don Giuseppe Dossetti, dove rimarrà per circa un anno. Qui conosce la ‘Piccola Regola’ che diventerà il perno e fondamento della futura comunità di Marango. Afferma don Giorgio “la vita spirituale, come ogni altra vita, non la si inventa ma semplicemente la si riceve (…)”. Il dono Dal 24 novembre 1987, giorno inizio della vita monacale di don Giorgio, a poco a poco, si è andata formando la mia famiglia monastica, con ritmi di lavoro e stile di vita simile alla gente veneta di allora: fedeltà alla terra e relazioni segnate dalla solidarietà e dalla sobria amicizia, propria della gente dei campi. Non è stato un inizio semplice: i primi anni hanno messo alla prova don Giorgio che ha trovato nei poveri una spinta a proseguire sul cammino intrapreso. “… sono stati proprio i poveri, che già allora non mancavano, assieme alla presenza amorevole degli sposi, ad aiutarmi a mettere radici in questo luogo. Spesso sono proprio i poveri la voce dello Spirito Santo. Papa Francesco scrive che “esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri” (E.G. 48)”.
La chiave di questa esperienza è di cercare di vivere “una vita in comune, da cristiani” (Bonhoeffer), senza troppe specificazioni, restando però dentro alle vicende delle persone che si incontrano, lì dove si vive. Per questo, fin dal suo inizio, la comunità si è ispirata a due idee: trovare forme nuove su come affermare il primato di Dio nella storia, come testimoniarlo nella nostra vita e annunciarlo ad ogni uomo; cercare nuovi stili di celebrazione corale della fede, di condivisione della condizione umana, senza assumere la “mondanità” nel proprio stile. Non si cerca, perciò, più una fuga dal mondo, ma un modo più evangelico di vivere nel mondo. Afferma ancora don Giorgio, «è venuta meno la tradizione, la capacità di “tradere”. Spesso la Chiesa predica ma non trasmette. Il monaco allora è chiamato a ritrovare linguaggi nuovi per “dire Dio”. Noi siamo monaci più “di strada”, di periferia, i monaci della gente che ci vive accanto e che resta dentro la loro vita”.
Sono monaci che avevano un mestiere, un impegno in parrocchia, esperienze di Azione cattolica alle spalle, insomma una vita ordinaria. Alcuni di loro hanno mantenuto il lavoro fuori dal monastero. Gli altri lavorano in comunità e studiano (orto e una scuola iconografica). E questo contatto con la realtà quotidiana è stato mantenuto proprio come forma specifica della vita evangelica di questa comunità. «Sentivo che il Vangelo occorreva dirlo con la vita, prima ancora che con le parole» ancora don Giorgio. Perciò molta l’attenzione a chi è “fuori” dalla chiesa, o ai margini di essa e della società. Ecco perché al centro di questa esperienza viene posto il povero, chiunque esso sia, spogliato da qualsiasi etichetta: «gli indigenti materiali e spirituali, i malati psichici e gli stranieri, i ladri e le prostitute, i pentiti di mafia e gli ex ergastolani». Ospitati, senza se e senza ma, utilizzando solo la dedizione al vangelo come “strumento” di cura dell’umano.
L’altro aspetto che qualifica questa esperienza è che da circa 20 anni alcune famiglie hanno accolto l’invito dei monaci a trovare uno spazio settimanale per la preghiera nelle proprie case: non si tratta di un modo nuovo di pregare ma, di «portare linfa nuova all’ordinario delle proprie giornate». Da allora questi nuclei costituiti da più famiglie si sono moltiplicati e si ritrovano una volta alla settimana per pregare insieme; ogni settimana un nucleo è visitato da due monaci che esprimono l’unità della comunità cristiana.
L’ex patriarca di Venezia, Mons. Angelo Scola riconosce che la «caratteristica di questa comunità monastica, rispetto ad altre, è che non attira a sé, ma attira alla Chiesa». E’ infatti un tentativo e di dare corpo ad una forma ecclesiale in cui il termine comunità si fonde profondamente, in modo concreto, col termine comunione. Questo è, forse, il carattere più nuovo, che questa esperienza segnala. Carattere pastoralmente interessante perché cerca di ridare vita autentica, oggi, all’essere Chiesa. A fronte di una cultura post – moderna in cui la frammentazione sociale e individuale spinge le persone verso un individualismo disumanizzante, la Chiesa ha la necessità impellente di costruire nuove forme comunitarie, anche contaminando quelle tradizionali in cui la comunità si è strutturata fin’ora, in cui l’essere Chiesa risalti nella sua attrattività evangelica. Forse questo può davvero mostrare come la fede possa essere anche fonte, dal basso, di una “ricostruzione” del tessuto sociale.