Che cosa insegna lo stile Taizé

La "presa" sui giovani d'oggi di un'esperienza che ha molti aspetti esemplari da importare. Come dicono gli stessi freres
2 Gennaio 2012

Mentre giovani di tutt’Europa si sono raccolti in questi giorni a Berlino per il 34° incontro europeo proviamo a chiederci cosa insegna lo stile di Taizé che ogni anno attira anche 3 mila italiani. O meglio, perché ci tornano con gusto, trovando spesso lì quello che da altre parti non hanno mai assaporato.
Frere Leandro, l’argentino che tiene i contatti con loro e in novembre ha ricambiato la visita ad una trentina di parrocchie italiane, indica tre motivi principali – la preghiera meditativa, l’amicizia con i giovani di tutto il mondo e la semplicità della vita quotidiana – e aggiunge l’augurio che valga per loro quello che Taizé è stato per lui ventenne: “il posto ideale per pormi delle domande profonde”.
Se la nostra “generazione incredula” si porta dentro una religiosità in ‘stand by’ (“critica verso la Chiesa ma possibilista verso la fede”, dicono i sociologi), il luogo per riattivare il ‘play’ può ben essere un ambiente come Taizé, dove il silenzio ti costringe a spegnere i rumori del mondo e la ripetizione a canone di alcune frasi semplici (“nada te turbe…) ti trivella il cuore. Dove ti fermi a dialogare con testimoni del Vangelo radicali (chi oggi come i monaci sceglie di “dare tutto ai poveri”?) e dove dentro un’assemblea cosmopolita hai molti spazi per trovarti solo con te stesso.
Chi non conosce Taizé e conosce i nostri ragazzi solleverà di certo il solito pregiudizio: “esotico” happening di massa con vampate di emozioni destinate a spegnersi in fretta.
Non sanno che già a metà settimana i freres propongono una verifica per “sfrondare” gli aspetti esteriori e andare all’essenziale: chi si ferma ai primi, non torna a Taizé. E sottolineano peraltro che una componente emotiva fa parte della vita, semmai va interpretata e utilizzata “nella sua grammatica e nella sua sintassi” come c’invitava Gilberto Borghi qualche mese fa.
E’ uno stile esigente quello di Taizé, ma ti lascia libero, non va a braccare i giovani, non cerca di conquistarli per altri fini. “Non dobbiamo mai dare l’impressione che ci prema la Chiesa più di loro stessi, della loro ricerca, della loro felicità”, avvisa il pastoralista don Ivo Seghedoni, parroco veneto dalle antenne attente.
L’ultimo pregiudizio su Taizé (“una sorta di setta ecclesiale che ci ruba i giovani”) è quello più immeritato: “Frère Roger riteneva essenziale non organizzare alcun movimento intorno alla comunità – spiegano i suoi freres con pacatezza – . Al contrario, ciascuno è spronato, dopo aver vissuto una tappa del pellegrinaggio di fiducia, a vivere a casa propria ciò che ha colto del Vangelo, con una più grande coscienza della vita interiore che lo abita, ma anche attraverso gesti concreti di solidarietà”.
Di qui – soprattutto in Italia – il forte collegamento con le Chiese locali, attraverso parrocchie dove si vive settimanalmente la preghiera di adorazione. Spiega giustamente frere John, a Taizé da quasi 40 anni, in un bel dialogo con Marcello Mattè nel penultimo numero di “Settimana”: “La domanda più frequente dei giovani è come dare continuità una volta tornati a casa, per evitare che resti un’esperienza sospesa. Non provate a imitare Taizé – diciamo loro – ma se qualcosa vi ha colpito (preghiera, silenzio) cercate il modo di proporla nella vostra realtà”.
In val di Fiemme, a Predazzo, sono riuniti fino al 31 dicembre 160 i giovani trentini con i “don” della pastorale giovanile

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