Nella due giorni di dialogo, confronto e conoscenza, ragioneremo insieme su alcuni grandi temi dell’attualità ecclesiale: parrocchia, potere e partecipazione, spiritualità e corpo, comunicazione, presbiteri. Secondo il modello sinodale, ci si troverà attorno a ‘tavoli’ di discussione, scelti liberamente da ogni partecipante; organizzati in piccoli gruppi, proveremo a capire insieme dove stanno andando la nostra chiesa e la nostra vita di fede in questo XXI secolo, cercando di immaginare qualche scenario futuro. Quanto emergerà dai tavoli permetterà di avviare il confronto con due ospiti attenti al ‘paesaggio umano ed ecclesiale’: Marinella Perroni e Giuliano Zanchi. Qui il programma e le modalità di iscrizione.
Parrocchia oggi: frontiera, limite o rifugio? –
Anche al cristiano della domenica, un po’ periferico rispetto alle persone molto impegnate, appare evidente che la crisi ecclesiale si manifesta a partire da quella struttura che da secoli incarna in ogni piccolo spazio geografico la presenza della Chiesa: le parrocchie. Non si tratta solo di un calo di presenze, ma soprattutto di un disamore, di una stanchezza e quasi noia, per la tendenza ancora molto presente del “si è sempre fatto cosi”, che si allarga a macchia d’olio nelle piccole comunità ecclesiali italiane. Eppure noi pensiamo che la parrocchia possa ancora avere un senso, ma quale? Al momento sembra più un limite, che impedisce a chi vuole fare esperienza profonda di fede di poter aver spazi comunicativi e fattivi. Per alcuni sembra un rifugio, un piccolo pezzo di oasi ancora intatto, in cui rintanarsi a fronte dello “tzunami” che sembra pervadere il mondo in tutti i suoi aspetti. Ma rispetto al quale ci si può chiedere in che cosa creda davvero chi ancora resta in parrocchia. Per altri, forse, proprio questa condizione di “non ancora mondo” ma nel mondo, potrebbe diventare un punto di partenza per rendere la parrocchia una frontiera, intesa come luogo di contatto e scambio con chi crede diversamente o non crede.
Chiesa: potere e partecipazione –
Il sinodo, ancora in atto, non lascia dubbi sul fatto che la crisi ecclesiale abbia a che fare anche con la gestione del potere. Da più parti, anzi, si assiste a dinamiche, soprattutto nelle parrocchie, ancora meno evangeliche di quanto non fossero quelle preconciliari. D’altra parte, i primi due anni di ascolto sinodale hanno rivelato una sorprendente voglia di partecipazione dei laici, anche di quelli periferici, una serie di carismi sopiti o mai visti, né valorizzati in persone poco visibili ecclesialmente. Dobbiamo, allora, trovare forme di partecipazione e di gestione del potere comunitario che offrirerebbero molto più spazio anche a questi carismi e mostrerebbero un volto ecclesiale più evangelico e meno “costantiniano”. Che ci piaccia o no, quella Chiesa è finita e se non si trova una forma diversa non facciamo un buon servizio al vangelo. Ma la questione non è facile: anche le parole che sembravano essere più promettenti, come ad esempio ‘corresponsabilità’, si stanno consumando troppo presto. Cosa siamo? Una monarchia con un sovrano illuminato? Una democrazia apparente in cui la maggioranza ha potere perché si adegua ad una minoranza non elettiva? Una oligarchia, che cambia gruppo di potere a seconda del “gruppo” ecclesiale a cui ci riferiamo?
Spiritualità e corpo: armonie da costruire –
Una delle fratture più evidenti tra l’area ecclesiale e il mondo è proprio quella che taglia trasversalmente l’uomo, tra i suoi pensieri, le sue emozioni, le sue pulsioni, i suoi sentimenti, le sue intenzioni. E quella dimensione che chiamavano spiritualità, tradizionalmente legata al pensiero, si è colorata di tante altre forme, spesso molto lontane dai percorsi spirituali tipici della cattolicità. Eppure in questa “diaspora” dello spirituale, molte persone, anche credenti, stanno cercando alimento a una vita interiore che altrimenti sarebbe difficile nutrire dentro la Chiesa. Ma anche per coloro che restano nell’offerta spirituale tipicamente cattolica, la fatica di coniugare il pensare con il sentire e con il volere è oggi quasi insopportabile. Indice del fatto che, dentro e fuori la Chiesa, il modo di essere persone con una interiorità viva è cambiato profondamente. Certo, c’è bisogno di un cambio di antropologia, ma ancora prima di questo, c’è bisogno di esperienze e buone pratiche che sappiano di “armonia”, di parti dell’umano “riconciliate a sufficienza”. Dove trovarle? Come renderle offerta diffusa? E noi, oggi, che contesto sociale e umano abbiamo per potervi intuire strade di spiritualità integrale?
Le parole giuste: perché non siamo ascoltabili? –
Capita spesso, soprattutto a chi insegna, a chi fa catechesi o cultura: basta usare un po’ di “ecclesialese” che gli ascoltatori reagiscano immediatamente e alla seconda parola chiudano il canale. Percezione questa che si ritrova in tantissimi, credenti e non, soprattutto nell’ascolto sinodale, e che rimanda all’idea che il nostro linguaggio, mediamente, non è più ricevibile. Ciò non significa che per chi ascolta sia sbagliato ciò che diciamo, ma, ancora prima, che quello che diciamo non è ascoltabile perché viaggia su lunghezze d’onda su cui quasi nessuno più è sintonizzato: ci sono grammatiche ormai non più comunicabili. Ma noi sappiamo bene che il linguaggio non è un accessorio per esprimersi, è parte integrante della costruzione del pensiero e dei sentimenti che vengono espressi. Perciò linguaggio irricevibile vuole dire anche pensiero e sentimento non più adatto a parlare davvero di ciò di cui vorrebbe parlare. Il mondo se ne è andato per altre lunghezze d’onda, soprattutto in Internet, dove il modo di stare dei cristiani è spesso deludente e ‘vecchio’, oppure fintamente ‘nuovo’ ma vuoto. Sappiamo però che non mancano le domande profonde, le ragioni per affrontare i drammi, i motivi per cui vivere. Come e dove trovare le parole giuste? Quanto siamo disposti a modificare il nostro pensiero e i nostri sentimenti perché il nostro linguaggio sia ascoltabile? O dobbiamo ammettere che, se la realtà non ci ascolta, peggio per la realtà?
Preti: umanità da riscoprire –
Non nascondiamoci dietro un dito: nelle nostre comunità il prete è ancora il centro e il riferimento di tutte le attività comunitarie e spesso il nostro biglietto da visita per chi viene “da fuori”. Magari potremmo pensare che questo non sia corretto, ma sta di fatto che al momento i nostri preti ricoprono un ruolo ecclesiale e sociale che sopporta pesi inimmaginabili, per chi non li conosca un po’ da vicino. A parlare con alcuni di loro è sembrato, però, che il problema più rilevante è che la loro umanità, quella su cui non può non appoggiarsi lo Spirito, è fortemente in crisi. Non solo e non tanto per il celibato, che sembra non essere la questione centrale. Ma per la difficoltà di coniugare tradizione, spiritualità, potere ecclesiale, con le emozioni, i bisogni, i sentimenti, le ferite, le risorse che ognuno si porta dentro. Un peso enorme su spalle fragili! Non crediamo che la soluzione sia nell’alleggerire il peso, perché spesso, soprattutto tra i preti giovani, serpeggia l’idea che essere diventati preti possa consentire loro di “dribblare” le inconsistenze interiori, le ferite educative, e “miracolosamente” liberare le potenzialità evangelizzatrici, a prescindere dal loro equilibrio umano. Ma davvero è solo un problema dei vescovi e dei seminari (da riformare)? La comunità ecclesiale ha degli spazi in cui può accompagnare lo sviluppo umano solido e armonico di un prete?