Quando a parlare sono gli occhi e le mani

«Quand’era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò»
6 Marzo 2016

 IV domenica di Quaresima: Lc 15,1-3.11-32

IL PADRE MISERICORDIOSO (Arturo Martini, 1926, Acqui Terme, Casa di riposo Ottolenghi)

 

Ha di buono, la scultura, che va subito al sodo: non distrae con sfondi e colori, né perde tempo dietro alle minuzie, ma porta subito a contemplare un gesto. Che non è un abbraccio qualunque, perché, oltre alle mani, giocano un ruolo fondamentale gli sguardi.

La bellezza dell’opera è tutta qui: in questa sospensione di occhi, pelle, palmi, polsi, spalle, gomiti… che, emozionatissimi, si ritrovano. Ricombaciano. E si riaccolgono: nello sfiorarsi, accarezzarsi, sostenersi, capiscono d’essere migliori e d’avere un futuro insieme.

Questo avvenimento così semplice e così raro – che con la parola riconciliazione bruciamo in un secondo – non dura un secondo: viene da lontano, da una ricerca, da un desiderio. E non è prerogativa di un padre e di un figlio: può succedere tra due amici, due sorelle, due fidanzati, due coniugi, una nuora e una suocera, un professore e uno studente, uno Stato e un altro Stato… che si stancano d’essere lontani e tornano ad amare ciò che hanno in comune. Che è più bello di ciò che li ha divisi.

I due «non ci sono per nessuno», come gli innamorati della poesia di Prévert: a bocca aperta per la meraviglia, lasciano a bocca aperta – e a distanza – anche chi guarda. È un momento metafisico (non a caso amato da De Chirico), da godere e basta, senza prima e senza dopo, senza dare o chiedere spiegazioni, senza altri accanto.

Ciò spiega perché l’incontro tra padre e figlio sia il fotogramma che, in assoluto, ha più commosso gli artisti. Poi ci sono le eccezioni, dovute alla voglia di narrare e legate alle “simpatie” di ogni secolo per una parte del racconto: al Cinquecento (Dürer, Bosch, Beham, Rubens…) piaceva il figlio in tenuta da guardiano di porci; al Seicento (Gherardo delle Notti, Rembrandt, Vermeer…), la dissipazione dei beni; all’Ottocento (Rodin, Doré…), il tormento del figlio.

Alla festa finale – quella con parenti e amici, vestiti e cibi da grandi occasioni – gli artisti non si sono mai sentiti invitati. Incerti se includere o no il guastafeste, che ha “sporcato” il lieto fine della storia, hanno optato, in grandissima maggioranza, per dimenticarlo. E un po’ se lo merita chi si dimentica d’essere figlio e fratello. Se n’è ricordato Rembrandt, però confinandolo a lato. Soltanto un pittore francese di fine Ottocento, James Tissot, l’ha ritratto mentre rivendica giustizia, con un’opera non all’altezza del personaggio. Auspichiamo artisti contemporanei capaci di dare peso al fratello maggiore: si ispirino pure a noi, sempre più incapaci di gioire del perdonare e dell’essere perdonati.

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