L’attesa paziente di Maria

«Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio»
24 Dicembre 2017

IV domenica di Avvento: Lc 1,26-38

NOSTRA SIGNORA DELL’ATTESA (seconda metà del XIII secolo, Toro, Collegiata di S. Maria Maggiore)

 

Le Madonne del Parto (dette anche della Dolce attesa o dell’Avvento), pur presenti in Italia (le più note sono quelle di Vitale da Bologna, per la chiesa di S. Maria dei Servi della sua città, e di Piero della Francesca, per la cappella del cimitero di Monterchi), godono di buona diffusione nella penisola iberica. Come questa, scovata in una cittadina spagnola della provincia di Zamora (nella comunità autonoma di Castilla e León) e facente parte di un’Annunciazione.

Ancor più del valore dell’opera, è importante che sia evidenziata l’attesa. Un tema caro a letterati e artisti, anche in ambito laico, con un picco d’interesse nella prima metà del XX secolo (dai dipinti di Klimt, Casorati, Delvaux, Hopper alle sculture di Martini, dalle poesie di Corazzini, Rebora, Montale ai drammi di Beckett e ai romanzi di Buzzati…), quando l’attesa viene ripresa in considerazione come reazione a un mondo che cominciava ad andar di corsa, ma pure riletta come tempo perso o inutile, inventato per chi non arriverà mai.

Poi, dell’attesa, si sono persi i connotati. È immaginabile che, se un contemporaneo si dovesse cimentare sul tema, non mancherebbe di usare una figura dell’impazienza (ad es. lo sguardo all’orologio o al calendario), dando l’idea che si attende un tempo… mentre questa scultura si pone sul versante della pazienza, dove – più dell’ora o della data – conta la persona che si aspetta.

Ciò non esclude che la pazienza sia faticosa (infatti «si porta pazienza») e abbia in sé una componente di resistenza (di solito «ci si arma di santa pazienza»). Tuttavia la sua qualità migliore è un’altra, individuata da Arthur Rimbaud e fatta notare di recente da Erri De Luca: quella d’essere ardente. Scrive De Luca: «Non è sopportazione, ma tensione dentro un’attesa. Si manifesta nel prigioniero in scadenza di pena, nell’innamorato arrivato in anticipo al primo appuntamento». Se l’attesa è un viaggio interiore, da fermo, verso un altro, la pazienza non vede l’ora che il viaggio abbia termine, che l’incontro avvenga. Anche se si deve accettare che sia l’altro a dettare i tempi, come ben sanno le donne incinte.

Fa presto l’angelo Gabriele a mettere uno dopo l’altro dei verbi al futuro («concepirai, darai, chiamerai…; sarà grande, verrà chiamato, darà, regnerà, non avrà fine…»), che sembrano annullare il tempo, ma tocca a Maria vivere il lungo cammino dei giorni, uno dopo l’altro, impossibili da abbreviare. Dunque, senza far finta che non ci sia stata attesa, vale la pena ricordare l’inquietudine e il calore che l’hanno accompagnata e, soprattutto, il fatto che l’attesa si sia compiuta.

Per una strana combinazione dell’anno liturgico, oggi, di quest’attesa, si celebrano l’inizio e la fine. Non è stata una ricerca, perché c’era la sicurezza di trovare l’altro. Né è stata malinconia, perché c’era la gioia, di cui la malinconia è spesso priva. E neppure è stata solitudine, perché le sono state compagne la fede e la speranza: Maria ha avuto fiducia in colui che ha promesso e ha sperato nella sua promessa, realizzata – questa notte – nell’incontro con il Figlio.

Chissà se Maria l’avrà guardato con gli stessi occhi del giorno dell’Annunciazione, pieni di stupore e aperti al futuro, mettendo da parte ogni preoccupazione. Sarà per l’aiuto del Figlio che Maria potrà schiacciare la testa al serpente, simbolo del male, raffigurato – con Adamo ed Eva – nella mensola sotto i suoi piedi.

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