Le tre “f”: folla, festeggiamenti e fede

Se sappiamo guardare all'intelligenza delle emozioni, anche una festa per lo scudetto può essere formativa...
6 Maggio 2023

Il rito ha una forza tutta sua. Stentiamo a comprenderlo. Ma facciamo tutti quanti parte di società che fanno uso di “riti”. Anche lo sport ha i suoi riti. La “trance” da stadio è stupida; ma snobbare il tifo può esserlo ancora di più. La tendenza ad intellettualizzare tutto, può farci perdere un’occasione di formazione e di educazione. Se ben indirizzata, anche la festa per uno scudetto può essere educativa. In fondo, i rituali creano contesti e processi di simbolizzazione e costruzione delle identità sociali e, così, anche di quelle individuali. In ogni caso, i rituali offrono un orizzonte e un contesto per le azioni performative: si crea con ciò che si fa, soprattutto attraverso le emozioni collettive.

In questi giorni, in cui la “trance” collettiva per il posizionamento nel campionato di Calcio italiano di Serie A sta offrendo spettacolo e perplessità, non riesco a non pensare cosa potesse mai accadere negli anfiteatri romani soprattutto in relazione ai giochi romani, ai gladiatori, alle corse. Folla osannante, scommesse, partiti, zuffe – ce lo ricordano soprattutto Marziale e Giovenale. A tutto questo si aggiungeva anche la curiosità femminile: le donne “sospiravano” nel vedere la prestanza fisica di molti “eroi”: in un graffito murale di Pompei (il CIL IV, 4379) un gladiatore è definito “suspirium puellarum” (sospiro delle fanciulle). Gli autori poi ci ricordano che gli spettatori dei giochi ippici si distinguevano in “partiti” secondo diversi colori – “rossi”, “verdi”, “azzurri” – e non mancavano tra loro risse: insomma, zuffe, lotte, omicidi, daspo, c’era già tutto (cfr. Tacito, Annales, 14, 17).

Tutto questo perché i riti portano a identificarsi nell’eroe, nel racconto, nell’evento fondante. In questo senso, la “disputa” agonistica sul campo, può diventare, e purtroppo diventa, anche un “conflitto” reale. Si è come trasportati con forza a sentirsi pienamente partecipi di questo o quel giocatore, questa o quella squadra, a causa della dinamica della “mimesi rituale”. Dobbiamo allora misconoscere la “mimesi”? Se lo facessimo non avremmo capito nulla neanche dei rituali religiosi. Se volessimo, per assurdo, “sopprimere” la partecipazione mimetica, dovremmo abolire ogni rituale religioso compresa, per i cristiani, l’eucaristia. Senza mimesi rituale l’eucaristia può cedere il posto all’insignificanza reale, sebbene le venga concessa un significato intellettuale. E la soppressione della partecipazione mimetica da parte del “popolo dei fedeli” (per dirla con terminologia preconciliare) ha portato nella storia a devozionismi, intellettualismi, lasciando che si moltiplicassero intanto i rituali devozionali.

Il punto è che le famose tre “f” di Ferdinando di Borbone (“festa, farina e forca”), dettate dalla politica tiranna, nel rito possono lasciare il posto ad altre “f”: folla, festeggiamenti e fede. Non è facile concordare queste tre realtà, ma è possibile, a patto che la folla non si deresponsabilizzi dei festeggiamenti e che questi non siano d’ostacolo per la reale libertà personale.

La prima idea chiara credo sia la seguente: i rituali non si possono sopprimere. La seconda però va subito aggiunta: bisogna formarsi nei rituali e coi rituali – e ogni occasione è utile. Formarsi significa liberarsi dalle dinamiche collettive per autodeterminarsi: dai cortei in memoria della Festa della Repubblica a quelli per i Fridays for Future, dalle processioni per la Via crucis ai pellegrinaggi alla Mecca, dalla preghiera quotidiana alla celebrazione eucaristica, ogni rito ha bisogno di formazione. Da qui una terza idea: non si può partecipare con la stessa intensità a tutto. Saper distinguere educazione democratica da tifo sportivo, presenza civile da partecipazione religiosa, è fondamentale. La differenza la fa non solo l’intensità, l’intenzione, le raccomandazioni, la preparazione, ma soprattutto il sapere distinguere, guidare e “usare” la carica emotiva allo scopo di autodeterminarsi e di radicare la propria autodeterminazione. Il rituale da solo mi sconvolge, mi ordina, mi indirizza, mi educa. Ma quanto io mi faccia prendere dal rituale dipende solo da che senso voglio dare alla mia azione, “qui e ora”.

Era troppo lapalissiano Seneca che considerava ogni intrattenimento “ozioso”. Ma in realtà, egli, da bravo romano, percepiva i riti e i giochi solo in relazione ad un soggetto: la folla. La vera distinzione nel rito, come sostiene R.Girard, è la mimesi partecipativa, che coinvolge nell’emozione collettiva, e la mimesi assimilatrice, che dipende da “chi vuoi essere”. Ed è evidente che la vittoria di un trofeo non ti renderà un uomo più libero, ma solo più divertito. Il tifoso, per essere tale e per rimanere cittadino civile, sa che partecipa emotivamente a un evento collettivo, ma sa anche che la propria libertà e la propria identità non è legata alla “folla” bensì al profondo sé. E la propria radicale identità non si gioca con uno scudetto (vinto per la bravura di altri…). L’equilibrio sta in una remota domanda: “chi vuoi essere?”. In essa ogni rito cerca una risposta o ne determina una. Ma il rito ti apre le porte; il resto lo puoi e lo impari a dare tu. Se ci facessimo determinare solo dai riti collettivi (dalla folla) saremmo molto poveri.  Il cristianesimo è una fede che presenta le dinamiche della religione: in esso il rito è insopprimibile purché sia salvaguardata la distinzione tra aggregazione e partecipazione, tra folla e sequela.

Una persona “religiosa” sa che essere un tifoso equilibrato comporta la distinzione tra emozione collettiva (utile ma sempre ambigua) dalla mimesi partecipativa. Solo la seconda può condurre ad una certa libertà. E nel cristianesimo solo la memesi anti-sacrificale è liberatoria. Ciò non toglie che un sano tifo è sempre piacevole: crea identità e costruisce gruppo. Purché questo non diventi “folla”. Anche per questo, un buon tifo e la partecipazione ai giochi, senza “vizi” (come voleva Seneca), senza apprensione e conflittualità viscida (come raccomandava San Francesco di Sales), possono aiutare interi gruppi a fare un passo verso la possibile libertà: non contro qualcuno (lo scudetto del Napoli sarebbe rivendicazione sociale del Mezzogiorno), non per il piacere della sconfitta altrui, né per l’identità di un gruppo sociale (che a Napoli, purtroppo si sta anche rivelando con i festeggiamenti che porranno quartiere contro quartiere), ma immagazzinando belle emozioni.

Tutto questo, però, avviene solo se si è veramente capaci di farlo. L’educazione ai riti e alle emozioni rituali è un compito che va assunto tanto nell’ambito civile quanto in quello rituale – e le due cose non possono essere semplicemente distinte, perché le dinamiche del rito non lo permettono. Bisogna che ciascuno ricomprenda i riti come luogo di educazione delle emozioni: e la fede in questo può far tanto. Anzi, per lungo tempo i riti religiosi “ufficiali”, i “credenti intellettuali”, e i “fedeli radical chic” hanno dimenticato che la sola intellettualizzazione dei riti comportava il rischio di vedere i riti religiosi deserti o snobbati.

In realtà, i riti non consentono l’oblio di sé stessi. In questa prospettiva, ogni occasione dev’essere buona per educare ma soprattutto per capire che le emozioni non possono essere soppresse, anche nei riti religiosi poiché non c’è radicalità senza essere emozione, non c’è conoscenza senza passione. Cogliere i riti come luoghi di crescita e lasciare che anche i riti religiosi parlino nelle emozioni. In fondo, nessuna “fede” è tale se è solo pensata: la fede c’è quanto la si “fa”. La ricomprensione della forza dei riti può condurre tutti ad una valutazione dei festeggiamenti o alla capacità di “fare festa” la domenica, allo stadio e in chiesa, con le dovute distinzioni ma lasciando che il rito parli nelle emozioni. Così il rituale del gioco allo stadio, il tifo, la partecipazione consapevole ad una festa possono andare d’accordo con una buona autocoscienza responsabile e cristiana.

 

Una risposta a “Le tre “f”: folla, festeggiamenti e fede”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Oggi però sembra prevalga l’importanza di suscitare “emozione” in tutti i campi, come voce profonda di riferimento; perfino riferendosi a coscienza questa sembra divenire da emozione, perfino il mercato attraverso la donna figura centrale la fa muovere robotizzandola in tutto a essere sorgente di emotività. Lo sport supera tutto in quanto da scatenare anche rabbie da frustrazioni quando gli idoli cadono o deludono. Giusto il riferimento ai romani che per dominare si servivano di entusiasmi dando al popolo passatempi cruenti. Il cristianesimo non è un paragone di confronto, quando è vero non necessita di esaltazione emotiva ma fa silenzio e onora Dio con le opere che hanno ispirazione dal cuore

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