Taizé, un villaggio della Borgogna di cui molte persone probabilmente non sanno nemmeno scrivere il nome nel modo corretto. Non è un luogo di villeggiatura, non ha ristoranti gourmet da proporre (vi garantisco che è esattamente il contrario!), non ha nessuna attrazione turistica e neppure, a dirla tutta, un particolare interesse geografico di alcun tipo. Eppure… eppure questo villaggio poco lontano da Cluny è visitato ogni settimana da migliaia di persone, soprattutto giovani e giovanissimi (tra i 15 e i 30 anni) che vi trascorrono una parte del loro tempo libero (da 4 giorni a una settimana o anche alcuni mesi).
Giovani disposti a ‘patire’ alloggio e vitto a dir poco spartani (da uno dei ragazzi del nostro gruppo ho sentito definire l’accomodamento «selvaggio») per qualcosa di più grande.
Dagli anni ’40 a Taizé si è pian piano formata una comunità di fratelli attorno a Roger Schutz, uno svizzero che durante la seconda guerra mondiale si era stabilito lì per aiutare in ogni modo possibile i profughi, soprattutto ebrei.
All’interno della Chiesa cattolica definiremmo questa una comunità di monaci con i voti di povertà, obbedienza e castità. Nella fraternità di Taizé preferiscono definirsi «fratelli laici di ogni confessione cristiana, che cercano di vivere come i primi cristiani descritti nel libro degli Atti, con i voti monastici di celibato, condivisione dei beni e obbedienza».
Ma ad attirare i giovani su questa collina probabilmente non è questa conoscenza storica e geografica ma la preghiera e le modalità del tutto particolari con le quali qui essa si svolge.
Due sono i punti chiave di questo modello di preghiera: il canto, e il silenzio. La musica consiste nella ripetizione per decine di volte di una frase, sia essa un versetto biblico o magari un testo del fondatore. Questi sono cantati dai fratelli della comunità e dai giovani presenti a quattro voci, ripetuti a lungo e a volte sovrapposti da versetti del solista. D’altro canto al centro di ciascuno dei tre momenti quotidiani di preghiera vi è il silenzio, lungo e profondo. Colpisce e fa impressione in modo positivo vedere la grande chiesa della riconciliazione colma di 2000 giovani o più, in totale silenzio per la durata di ben 10 minuti. Nessun brusio, niente chiacchiere, nessuna distrazione (solo qualche colpo di tosse…) ma tutti assorti, in meditazione, in preghiera, o nei suoi pensieri. Una ragazza del gruppo che ho accompagnato quest’anno scrive: «non è scontato che 2000 persone restino in silenzio per 10 minuti ad ogni preghiera. È un silenzio avvolgente e coinvolgente; qui ho riscoperto la bellezza e il bisogno di un momento di silenzio e di raccoglimento personale nella giornata».
I miei ultimi giorni trascorsi a Taizé datavano ormai di otto anni ed in passato vi avrò trascorso circa tre settimane suddivise in quattro diversi viaggi, alcune volte dedicando il tempo a me stesso, altre accompagnando dei gruppi. Questo ritorno risente del mio essere invecchiato, della pandemia e anche del tema degli abusi.
Gli stessi fratelli della comunità (per primo il priore Alois) sono invecchiati, ma non hanno affatto perso la capacità di accoglienza, la pacificazione, il desiderio di profonda riconciliazione che da sempre caratterizza la comunità e non mancano di certo nuovi fratelli che esprimono i voti. L’accomodamento «selvaggio», comincia a non essere più sopportabile per me a lungo, ma continua ad essere molto educativo per i ragazzi accompagnati. I pasti e l’alloggio spartani diventano argomento di conversazione ma presto lasciano tutto lo spazio alla centralità della preghiera. La pandemia sembra aver influito non troppo sulla comunità (che comunque ricorda il tempo con la chiesa vuota di giovani e riempita solo dai fratelli) ma non ha lasciato indenni i giovani ospiti. La loro giovanissima età stupisce sia i fratelli che noi adulti accompagnatori. Ospiti giovanissimi ma colmi di domande, di inquietudini, di ricerca di senso, capaci di preghiera e di silenzio. Il venerdì e il sabato al termine della preghiera della sera, mentre molti si attardano a lungo nella chiesa con i canti per l’adorazione personale della croce, ho trascorso, insieme ad altri sacerdoti e alcuni dei fratelli, parecchie ore a disposizione dei ragazzi che cercavano un colloquio o la confessione.
Ho ascoltato e chiacchierato con quindici- e sedicenni soprattutto di lingua tedesca e francese. Ho potuto ascoltare domande, preoccupazioni, problemi, ma anche gioie e narrazione di cammini belli e fruttuosi. Ho accolto ragazzi e ragazze con un enorme bisogno di raccontarsi e parlare. Una giovanissima tedesca è stata un fiume in piena che per comprendere ho dovuto ‘interrogare’ al termine del suo sfogo troppo veloce per la mia capacità linguistica. Un giovane francese ha interrogato me sulla mia storia di vocazione, con una curiosità non morbosa ma certamente disarmante e se ne sarebbe andato soddisfatto così, se non gli avessi a mia volta posto delle domande. È in questi colloqui che ho compreso anche quanto la questione degli abusi, oltre che sulle nuove e precise regole per gli alloggi a Taizé, influisca anche sulla qualità del mio ascolto quando una giovane francese parlandomi di «harcèlement» (e intendendo ‘bullismo’, ma l’ho compreso solo chiedendo dettagli) mi ha fatto temere di dover ascoltare qualcosa di molto più grave.
Taizé oggi come in passato racconta di un desiderio, comune a molti giovani, di tempo condiviso nella preghiera, nel silenzio, nella meditazione, nella condivisione spartana per cercare qualcosa di più grande e bello, per cercare un terreno comune (qui l’origine confessionale perde di importanza) dove scoprire una presenza.
Il momento in cui si riparte però non è l’ultima parola. C’è il ritorno a casa, il camminare nel quotidiano. Solo di pochissimi dei duemila presenti posso conoscere il tempo della normalità e la stessa comunità di Taizé mette in guardia dallo scimmiottare a casa ciò che là si vive. Ma forse di quel silenzio, di quella preghiera che coinvolge in modo positivo l’emotività (l’adorazione della croce del venerdì o la luce della risurrezione del sabato) i ragazzi e i giovani potranno conservare almeno una memoria che possa diventare ricerca e azione.
Ho letto cercando di focalizzare il DELTA.
Perchè le ns chiese sono vuote, di vecchi come me, e Taizè=giovani ( ricordo ancora tre polacchi ospitati a 3viglio anni fa..
Tu ti chiedi, come mi chiesi allora: dove sta la loro differenza? Il distintivo che li unisce? Perchè tu percepisci che c’é!!
Lo chiedo a te.
A me affiora solo una parola : EMOZIONI.
Se vengo a noi mi ricorda Battisti..
NON le ns celebrazioni.