Rompere il silenzio sul silenzio

A Roma, sabato 7 dicembre, il primo incontro pubblico della “Rete sulla via del silenzio”
6 Dicembre 2019

Sono cattolico ma ho imparato a pregare solo a cinquant’anni, quando ho scoperto che lo si poteva fare anche in silenzio. Quasi casualmente, per il mio lavoro di giornalista, ho iniziato a incontrare uomini e donne, sacerdoti, religiosi, laiche e laici, che praticavano la meditazione. Fino a quel momento, oltre a ripetere, anche solo mentalmente, le canoniche preghierine, o orazioni letterariamente più elaborate, ero abituato a dialogare con Dio. Lo ringraziavo, lo imploravo, a volte lo maledicevo, per poi pentirmene. Ma non sapevo ascoltarlo.

Nessuno mi aveva mai detto che potevo mettermi in semplice attesa. Fare pulizia delle mie voglie e paure e aspettarlo. Quando ci ho provato, grazie a qualche guida esperta, ho avvertito una pace spirituale mai sperimentata. È vero che i demoni in questi frangenti si scatenano subito. Devi essere forte abbastanza per non cedere, perché è il segno che sei sulla strada giusta. Così, creando il vuoto, gradualmente puoi fare spazio allo Spirito. Levando il superfluo, le scorie accumulate dal tuo ego, ritrovare il principio divino che è in te sin dalla tua nascita. Puoi assecondarlo, affidandoti a lui.

La scoperta che queste pratiche meditative, nella corrente cultura ecclesiale collegate ad altre religioni o filosofie orientali, fossero insegnate dai padri della chiesa, dai monaci e dai santi, mi ha rassicurato, ma al contempo contrariato. Perché nella mia parrocchia nessuno mi aveva insegnato a meditare? Perché nelle parrocchie romane che avevo frequentato c’erano i chierichetti, i movimenti, i gruppi caritas, gli scout, il teatro, la lectio divina, ma non c’era una guida pratica alla meditazione, alla contemplazione, al silenzio? Solo la pratica dell’Adorazione eucaristica, per la verità poco diffusa, mi sembrava andare in quella direzione.

Allora ho pensato che le persone, i gruppi – piccoli o grandi – le organizzazioni – strutturate o meno – che in tante città italiane praticano la preghiera silenziosa, dovevano venire allo scoperto, insieme. Senza alcuna rivendicazione: solo per rompere il silenzio sul silenzio. Solo per offrire a tutti i credenti in Cristo l’opportunità di raggiungere la pace interiore. Magari prima dei cinquant’anni.

Assecondare questa sete di silenzio, mi pare oggi una scelta profetica, spiazzante e missionaria.

Profetica, perché in una società post-secolare dove non si è più cattolici per abitudine e le esigenze spirituali delle persone cercano risposte non tradizionali, intercettarle significa rilanciare la conversione dei credenti.

Spiazzante, perché in una Chiesa lacerata dalla usurata contrapposizione tra conservatori e progressisti, l’elogio del silenzio va oltre gli schemi, respingendo l’appiattimento sull’attivismo solidale ma anche quello sul moralismo legalista.

Missionaria, perché scegliere il silenzio nella società della strabordante comunicazione digitale, veloce quanto vacua, è una mossa rivoluzionaria che ci consente di tornare al “qui e ora”, all’attenzione, alla lentezza, allo sguardo verso il cielo. È un gesto che apre inaspettate vie di dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale. Non c’è nulla di più attraente di un cristiano che prega in silenzio.

Anche di questo, parleremo il 7 dicembre a Roma sull’Aventino, grazie all’ospitalità della Badia primaziale di Sant’Anselmo. E quando si è in tanti a fare silenzio il rumore, credetemi, può essere assordante.

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