La parrocchia con le porte aperte

Utopia di papa Francesco o realtà possibile? Cronaca (semi-autentica) di una trasformazione auspicata
8 Giugno 2015

Dopo la Pentecoste, mi contatta un parroco. Di periferia, certo. Mi invita a visitare la sua chiesa, avvisandomi che ci vorrà almeno una giornata. “Sa, abbiamo anche un centro di accoglienza per i padri separati, una casa famiglia per i migranti, poi una unità di strada permanente per le persone senza dimora e i giovani impegnati in varie attività di volontariato”, anticipa un po’ timidamente. Incuriosita, accetto di andare a trovarlo il giorno seguente. Nella casa canonica, un piccolo appartamento accogliente, m’imbatto in una collaboratrice domestica moldava, Nina, che ci tiene a precisare: “Ho un contratto part-time a tempo indeterminato, sono stata fortunata”. Don Paolo mi accoglie con un sorriso, jeans e clergyman al collo. “Mi scusi se sono un po’ assonnato: ieri sera, dopo l’adorazione eucaristica, con i giovani siamo andati a incontrare le persone senza dimora per distribuire bevande calde e panini. Però soprattutto ci abbiamo parlato, cercando di capire come possiamo accoglierli. Molti sono arrivati da lontano, altri sono italiani che hanno perso il lavoro. Ho chiesto a uno di loro di venire qui a lavorare come giardiniere e un ragazzo romeno di occuparsi della manutenzione degli esterni. Due signore pensionate, Wanda e Virginia, hanno dato la loro disponibilità per preparare pasti caldi a cena; nella palestra abbiamo una depandance che vogliamo trasformare in un mini-appartamento con due stanze, per accoglierli. Sergio, un altro volontario, si occuperà dei permessi. Se non avessi i laici…”.

Don Paolo è un vulcano di energie, ma ammette anche la sua fragilità: “Non possiamo salvare nessuno. I bisogni sono enormi. Ma ho capito che il bisogno più grande è quello dell’ascolto”, confida. “Vale per me, come per i parrocchiani. Siamo travolti dai ritmi e non abbiamo il tempo di guardarci negli occhi. In fondo, la prima cosa è restare umani e testimoniare questa umanità. Gesù, altrimenti, perché si sarebbe fatto uomo?”. All’esterno della casa canonica, contenitori per la raccolta differenziata, con simboli e scritte anche in Braille, ad altezza sedia a ruote. “Cerchiamo di far sentire tutti a casa, concretamente. Non è per niente facile e non è detto che ci riusciamo. Ci proviamo”, aggiunge il parroco. Non ha un tono di voce altisonante, né tende a ribadire il suo ruolo di guida. “Sono un compagno di strada, cammino insieme ad altri credenti”, aggiunge, mentre mi presenta Lorella, responsabile della casa famiglia per i migranti. Un’educatrice professionale regolarmente assunta, che sa tre lingue, e si avvale di una squadra di psicologi, pedagogisti, educatori professionali e mediatori culturali. Chiedo: “Sono tutti volontari, vero? Altrimenti, come fate a pagare tutte queste professionalità?”. Lorella risponde lentamente: “Abbiamo stipulato alcune convenzioni con il Comune. Poi ci sono alcune famiglie che hanno aderito al progetto ‘Aggiungi un posto a tavola’, sostenendo molto concretamente uno dei nostri ospiti, con nome e cognome. Una sorta di affido informale: il sabato e la domenica passano il tempo con lui, mangiano con lui, condividono momenti di relax (dalla partita a calcetto alla festa con gli amici) e provvedono alle sue necessità di vestiario, oggetti personali, ecc.”. Gli operatori retribuiti garantiscono qualche ora di volontariato a settimana, “una scelta individuale e libera, cadenzata a seconda degli impegni”.

Tensioni? “Non mancano, soprattutto per i tempi di attesa. I richiedenti asilo aspettano oltre un anno di essere ascoltati dalla Commissione territoriale che esamina la loro domanda. Nel frattempo non possono lavorare ufficialmente. Poi nel nostro quartiere sono numerosi i giovani disoccupati che rivendicano un aiuto anche per loro. Alcuni imprenditori stanno avviando start-up per rispondere a questo bisogno. Poi ricicliamo i nostri rifiuti, ogni domenica organizziamo un mercatino dell’usato e la vendita di dolci: mamme in difficoltà economica, giovani disoccupati, padri separati vengono e possono scambiare come baratto alcuni oggetti o venderli con un’offerta libera”. Don Paolo non me lo riferisce, ma la metà delle offerte domenicali dei fedeli vengono risucchiate in un flusso di donazioni per chi ha bisogno, sotto forma di pacchi viveri, pagamento di bollette e altro.

Ps. Questa cronaca è inventata, liberamente ispirata ad alcuni frammenti di realtà. Ma non così utopica da non poter essere vera.

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