Riceviamo e volentieri pubblichiamo la proposta di don Alessandro Enna, parroco delle parrocchie di Marrubiu, Vergine di Montserrat e Sant’Anna (Oristano), apparsa nel corrispondente sito (vedi qui).
In molte diocesi italiane i vescovi hanno oramai abolito ad experimentum la figura dei padrini e delle madrine. Le motivazioni di tale scelta sono solidamente fondate, così come è altrettanto legittimo che esse possano essere più o meno condivise. Non essendo il ruolo del padrino e della madrina obbligatoriamente previsto dal Codice di Diritto Canonico, specialmente per la Cresima, ad ogni singola parrocchia è lasciata la facoltà di adottare la decisione più opportuna a riguardo. Ognuno quindi si muove in base a quella che può sembrare la decisione pastoralmente più opportuna. Tuttavia è proprio per motivi pastorali che ritengo sarebbe opportuna una certa uniformità, almeno a livello diocesano.
Nella nostra diocesi, un numero significativo di parroci, tra cui il sottoscritto, è contrario all’abolizione in toto di questa figura. Specialmente quando in questa scelta si manifesta una sorta di giudizio morale sulle persone designate a ricoprire questo ruolo. E’ quindi certamente opportuno riflettere assieme sul significato che essa ancora riveste, specie in un momento di profondi cambiamenti come quello che stiamo vivendo.
Attualmente per potere essere ammessi al ruolo del padrino e della madrina, secondo il Codice di Diritto Canonico (can. 874), sono richiesti i seguenti requisiti:
La non ammissione a questo ruolo infatti credo rappresenti una forma di esclusione, che ferisce nella dignità la persona. Credo inoltre siamo tutti d’accordo che i requisiti richiesti riflettano una visione di società che non è più la stessa di cinquanta anni fa. Possiamo poi affermare senza paura di essere smentiti che, chi in seno alle Comunità possiede i requisiti richiesti, non sempre manifesta scelte conformi a ciò che professa. Scomparso oramai quel ‘regime di cristianità’ che vedeva la società rispecchiarsi quasi in tutto nei valori del messaggio evangelico e della dottrina cattolica, siamo posti, come cristiani, non a rivedere i nostri valori ma a rimodulare il rapporto con la società all’insegna del dialogo, cercando di cogliere ‘semi di verità’ anche al di fuori della fede cattolica.
UN SIGNIFICATO ALLARGATO E INCLUSIVO
Il tempo che viviamo è caratterizzato da una progressiva scristianizzazione della società e da una conseguente e crescente indifferenza nei confronti del messaggio cristiano. Da ciò nasce l’esigenza di questa rimodulazione di significati. Rimodulare non vuol dire certo negoziare i principi ma sapere riconoscere ogni ‘seme di verità’ nel contesto contemporaneo, all’interno del quale la Chiesa non smette di essere sale e lievito. Le differenze, anche di fede e religione, non sono mai una minaccia ma sempre una risorsa che stimola il cammino nella conoscenza, principalmente di noi stessi.
Il vangelo è un formidabile strumento per imparare ad accogliere, a non escludere nessuno. E’ compito della Chiesa non tanto uniformare ma armonizzare, saper cogliere in ogni differenza un semi di verità e germogli di vita. Se solo non chiudiamo gli occhi all’evidenza che le fragilità del nostro tempo sono lontanissime dal trovare risposte nei precetti della morale cattolica tradizionale, credo che ogni analisi debba essere fatta da differenti prospettive. Soprattutto, nella convinzione – affermata nelle linee di programmazione pastorale della diocesi di Roma (vedi qui) – che sia possibile «cercare, cogliere e ricevere da chiunque anche solo un frammento della Verità», e che «i “germi” del Regno sono scoperti e annunciati dalla Chiesa dentro e fuori di sé»: una Chiesa che abbraccia il mondo e che si lascia contagiare dal mondo». D’altronde, «la voce dello Spirito Santo si manifesta anche oltre i confini dell’appartenenza ecclesiale e religiosa», «apre nuove comprensioni del contenuto della Rivelazione» (IEC, Proemio, §5) e richiede «attenzione all’accompagnamento, discernimento e integrazione (Amoris laetitia, §241-246; 291-312) delle “situazioni imperfette”, “complesse” o “dette “irregolari” relative alle famiglie attuali.
La Chiesa, a partire dal significato originario del termine (l’ekklesìa era “l’assemblea” del popolo chiamato a riunirsi), unisce e accoglie, non esclude; valorizza il confronto e la pluralità. Ogni volta che la Chiesa esclude viene meno alla sua missione originaria e tradisce il suo universale messaggio di salvezza. Questa valorizzazione delle differenze non deve mai portarci a relativizzare i nuclei essenziali della nostra fede e, in nome di un malinteso pluralismo e di una visione laicista, a svuotare dei veri significati ciò che invece vorrebbe esprimere il linguaggio della liturgia, dimenticando che la legge di ciò che crede é la legge di ciò che si prega e si vive (Lex credendi, Lex orandi…) secondo un principio teologico dei primi secoli della Chiesa.
Recentemente, in un incontro con le madrine, i padrini e i testimoni, scelti dai cresimandi, ho osservato e ascoltato con molta attenzione gli interventi di tutti i presenti che, con naturalezza, hanno condiviso di sentirsi onorati nell’essere stati scelti a ricoprire questo ufficio per motivazioni puramente umane. La dimensione spirituale non è stata neppure menzionata. Ho apprezzato tutti gli interventi, anche quando qualcuno ha sinceramente ammesso di non essere credente e qualche altro di non aver completato il proprio percorso di iniziazione cristiana con la Cresima.
Ma come, si potrebbe obiettare, e hanno fatto da padrini e madrine? Come è possibile? Con quale significato o in quale ruolo? Aiutandoli proprio a scoprire il giusto significato di questo ruolo in risposta ad un invito, quello dei ragazzi/e cresimandi e delle loro famiglie. Un significato nuovo, più umano, che può prescindere da un diretto riferimento alla fede. A tal proposito, mi è sembrato opportuno, più logico e rispettoso, esonerare i padrini e le madrine da tutto ciò che, attraverso le parole e i gesti della liturgia, non potesse certamente esprimere una loro verità, almeno in quel momento, ma valorizzare il loro esserci davanti ad una richiesta dei loro figliocci che certamente rivela stima, fiducia e affetto.
Ho riflettuto parecchio e anche io sono arrivato ad una decisione che, se da una parte non esclude nessuno, d’altra parte però rivede i significati di questa presenza, nel rispetto di ciò in cui si crede e dei valori secondo i quali si sceglie di vivere. Sì, perché la fede non è un costume da indossare in certe occasioni, ma è indissolubilmente legata alla vita. Come denunciava il grande Paolo VI, la frattura tra fede e vita è una patologia che perdura da anni nella Chiesa e che trasforma la fede in religione e le due cose sono ben distinte e ben diverse. Una cosa è la fede, altra cosa è la religione. Nei nostri contesti ecclesiali assistiamo spesso ad una forza della religione e ad una spaventosa (e scandalosa) debolezza della fede: quante volte nei vangeli Gesù rimprovera per questo scribi e farisei (i credenti del tempo, compresi i preti e i vescovi).
Alla luce di queste considerazioni, sulle quali continueremo a confrontarci in futuro, ho preso la mia decisione, in attesa che il nostro vescovo e la CEI ci diano indirizzi più chiari a riguardo.
ORIENTAMENTI PER LA LITURGIA
STILE PASTORALE
OBIEZIONI E DIFFICOLTA’
L’obiezione che spesso mi viene fatta è che questa decisione rompe con una bella tradizione e con la importante componente legata ai gesti della liturgia. Ma tale componente, molto spesso meramente formale se non addirittura teatrale, ci allontana dal significato vero di ciò che si celebra.
Non credo sia rispettoso, tanto meno caritatevole, escludere delle persone perché ‘prive dei requisiti’. La vita è più forte, prevale rispetto a qualsiasi forma e norma della tradizione religiosa e Dio sta sempre dalla parte della vita, pur con tutte le sue tensioni, drammi e contraddizioni.
La stanca difesa di riti consuetudinari si risolve in un atto sterile, che non genera speranza e dà le spalle al futuro. Rispecchia una visione miope, di una Chiesa chiusa in se stessa, a difesa delle proprie abitudini, non importa quanto lontane dal presente.
In conclusione, credo che siamo chiamati a non confondere l’essenziale della fede, che è immutabile, con le abitudini e gli schemi pastorali, che vanno mantenuti e conservati solo quando sono a servizio della verità degli uomini e delle donne di oggi.
Accogliere non credenti o non praticanti perché ritenuti dai loro figliocci dei riferimenti umani, senza che si chiedano dunque requisiti canonici di fede professata e praticata, è un “segno” per entrare in dialogo con il mondo e cogliere anche quell’azione dello Spirito che opera fuori dei recinti ecclesiali
E’ un parere; che il padrino o la madrina non siano figure obbligatorie richieste dal rito, ma possono mancare se queste persone non incarnano quei requisiti richiesti da una Fedea condivisa in quanto il cresimando deve poter guardare a un esempio circa i valori della Fede. Infatti queste tradizione appare nel tempo aver perso proprio quel significato importante, come costituire esempio per il battezzato o cresimato, in sostegno della stessa Fede. Oggi, la grande assente e’ la Fede in Cristo, il quale non può essere sostituito da un umanesimo, che si suppone attribuito allo Spirito Santo, i buoni sentimenti sono in tante altre religioni e anche a chi è ateo, ma Cristo apre , a delle scelte di vita che aprono al suo Regno, una vita che non finisce con il corpo ma ogni persona conserverà il suo sembiante divinizzato come il Cristo Risorto.
Sinceramente preferisco l’abolizione di padrini/madrine: non si offende nessuno, si evitano adesioni di facciata, si lasciano le responsabilità educative ai genitori: che di fatto le hanno sul serio, con requisiti canonici o senza
Spero non vada a finire con il solito in pratica ognuno faccia come meglio crede. Sarebbe opportuno spostare l’attenzione dai requisiti personali del padrino/madrina al compito (aiutare il giovane e la sua famiglia nell’educazione cristiana) che questi dovrebbero assumersi, ben più importante. Dal momento che un non o diversamente credente, con una semplice dispensa, può sposarsi col rito cattolico mantenendo i propri valori ed impegnandosi solo a rispettare quelli del coniuge ed educare cristianamente i figli, perché non potrebbe farsi così anche per i padrini/madrine? L’ultima volta che ho fatto da padrino per una cresimanda nella mia parrocchia mi hanno chiesto solo se avevo i requisiti e fatto il certificato in modo rapido ma un po’ burocratico, mentre in quella della ragazza dovetti prendere parte, la vigilia della funzione, ad una liturgia penitenziale con confessione individuale per i genitori e i padrini/madrine,