Ascensione del Signore: Lc 24,46-53
GESÙ SALE IN CIELO (particolare del crocifisso di S. Damiano) (pittore umbro, 1100, Assisi, Basilica di S. Chiara)
Quando Giovanni – nell’Apocalisse – vede la Gerusalemme celeste, la dice così risplendente della gloria di Dio da non avere più bisogno della luce del sole e della luna. Potremmo, dunque, restare delusi da quest’ascesa poco sfolgorante e soprattutto… orizzontale. Ma va riconosciuto che, nella cimasa di un crocifisso, non restava molto spazio. Il Cristo triumphans, cioè vincitore sulla morte – vivissimo, con gli occhi spalancati e con le braccia che ti vogliono abbracciare – non poteva bastare all’ignoto pittore? No: la glorificazione del Signore andava celebrata.
Di sicuro, qualcosa doveva sacrificare: quindi, anziché dare rilievo al movimento di Gesù verso l’alto (qui appena accennato), l’artista ha preferito puntare sul «bentornato» degli angeli e del Padre. Per dire che lassù c’è stata festa grande. Quest’accoglienza a colui che era accogliente verso tutti veniva rimarcata già nel V secolo, nella porta lignea della Basilica romana di Santa Sabina, dove due angeli sembrano addirittura prelevare Gesù (d’altra parte, Luca scrive che «veniva portato su, in cielo»).
Nel crocifisso di S. Damiano, davanti al quale pregava San Francesco d’Assisi, sono da notare altre cose: la prima è che Gesù, rivestito di abiti regali, continua a portare con sé la croce (assente in molte Ascensioni), tenendola come uno scettro.
In secondo luogo, il fatto che Gesù si mostri quasi di profilo: una modalità inusuale nella pittura bizantina e, in generale, nella raffigurazione di questo soggetto. Peraltro una modalità scelta consapevolmente da alcuni pittori (ad es. Giotto), perché, pur rendendo meno solenne l’ascesa, ha il pregio di sottolineare la relazione col Padre.
Era proprio questa voglia di ricongiungersi che Gesù risorto aveva annunciato a Maria di Magdala: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre». A cui aveva aggiunto una rassicurazione preziosa da comunicare ai discepoli: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». Sarebbe stata la stessa cosa se avesse detto «Padre nostro»: tuttavia, con quel «mio» ripetuto, ha fatto intendere quanto avesse a cuore il rapporto personale col Padre, l’intimità con lui.
Ciò che “manca” nel crocifisso di San Damiano, rispetto ad altre Ascensioni, più che un qualcosa è un qualcuno: sono gli apostoli e Maria, rapiti in contemplazione. Se ci fosse stato spazio, a loro presenza poteva essere importante per ricordarne la testimonianza e per suggerire un nesso con la nostra glorificazione, perché Gesù, andato ad aprirci le porte del cielo, innalzerà al mondo divino tutti noi.
Ci avrebbe fatto bene vedere in faccia chi c’era, per cogliere il passaggio dalla tristezza alla gioia previsto da Gesù (Gv 16). Sappiamo infatti che gli astanti, dopo un momento di sbandamento, con la sensazione d’essere rimasti soli, vennero scossi da due angeli: «Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,10-11). Lì capiscono che quello di Gesù non è un abbandono ma una «vicinanza permanente» (come scrive Benedetto XVI) e che la loro missione continua assieme allo Spirito. È dalla «grande gioia» degli apostoli e di Maria che ha inizio la speranza.