XV domenica del tempo ordinario: Lc 10,25-37
IL BUON SAMARITANO (Vincent Van Gogh, 1890, Otterlo, Kröller-Müller Museum)
Alla domanda «Chi è il mio prossimo?» Gesù risponde con una storia. Avrebbe potuto dirlo con una spiegazione razionale, con un simbolo, con una definizione da dizionario… ma preferisce parole in cui ci si possa immedesimare. Offrendo uno dei suoi raccontini, semplici semplici, di pochi personaggi e di poco sviluppo, dove scombussola le attese degli ascoltatori.
Gesù parla di una vittima, senza soffermarsi sulla sua identità: chiunque sia vittima, merita d’essere soccorso. Ma «chiunque sia» si può dire anche per il soccorritore: un samaritano, un sacerdote, un levita… a condizione di non passare oltre. E qui Gesù fa una scelta di campo, perché l’eroe della sua storia fa parte di una categoria non troppo stimata: come se oggi, al suo posto, ci fosse un musulmano (o, a scelta, uno zingaro, un rumeno, un nero, un omosessuale, uno juventino…).
Nella domanda finale al dottore della Legge, Gesù sposta il cono di luce proprio su colui che ha compassione: il prossimo non è chi ha bisogno, è chi si fa prossimo a lui. Qualunque uomo di buona volontà può esserlo.
Quando le parabole passano in mano agli artisti, iniziano i problemi, per la difficoltà di individuare la scena-chiave. Ed è perciò che gli artisti tendono a scansarle, tanto più in presenza d’una storia, come questa, che si ripete con piccole differenze.
Sul primo momento – i briganti che lasciano l’uomo mezzo morto – ci si sofferma solo in epoche antiche (ad es. a Sant’Angelo in Formis, vicino Capua, in affreschi della fine dell’XI secolo, che indugiano pure sui due “passati oltre”).
Fra il XVI e il XVIII secolo, la scena clou diventa il soccorso a terra della vittima, quasi sempre con inquadratura ravvicinata del corpo seminudo, sulle cui ferite vengono versati olio e vino. È visibile anche prima, naturalmente, ma mai con tale frequenza. Tra le opere che prediligono l’episodio in questione, vale la pena segnalarne una del VI secolo, nel Codice purpureo della Cattedrale di Rossano Calabro, dove – accanto a un Gesù “buon samaritano” – è dipinto un angelo nell’atto di offrire una veste, a ricordare la terza opera di misericordia corporale.
Perché, allora, la scelta del quadro di Van Gogh? Per mostrare come anche gli artisti moderni si siano cimentati nella parabola e come si possa essere colpiti da un altro momento della storia: quello del caricamento della vittima sulla cavalcatura. Pur copiando un’opera di Eugène Delacroix di 41 anni prima (cambiano solo i colori e la tecnica pittorica), Van Gogh fa intravedere meglio, sulla sinistra, i due che non si sono fermati a prestare aiuto e lo scrigno svaligiato dai malfattori.
Non gode, invece, di molte simpatie la scena finale, quella del trasporto all’albergo, con tanto di compenso all’albergatore. La ritroviamo, ancora, nel Codice di Rossano e a S. Angelo in Formis; poi, nel Seicento, in un quadro di Rembrandt. Avrebbe fatto la felicità di Margaret Thatcher, la Lady di ferro inglese, che un giorno disse: «Nessuno ricorderebbe il buon samaritano se avesse avuto solo buone intenzioni. Aveva anche i soldi!» (scordando il fatto che Gesù prendeva di mira la ricchezza, non il denaro).
Per inciso, nulla vieta che in una stessa opera si tengano insieme tutti i momenti della parabola: lo fanno alcune icone contemporanee e una scultura di Carmelo Lizzio, collocata all’Ospedale San Raffaele di Milano, che divide la storia in cinque pannelli.