Sempre disponibili, ma usando la testa

«Dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”»
2 Ottobre 2016

XXVII domenica del tempo ordinario: Lc 17,5-10

«LAVARE I PIEDI GLI UNI AGLI ALTRI» (mosaico, XII secolo, Venezia, Basilica di San Marco)

 

Gli apostoli chiedono un aumento di fede. Manco fosse una dotazione di cui disporre o una medaglia da esporre. Non sembra contento, Gesù, e forse annusa una tentazione: che la fede, invece di far parte di loro, venga intesa al pari di un accessorio. Un qualcosa di esterno, che si può potenziare… anche perché può tornare utile, come un terreno che dà una rendita di posizione. Facendo pure sentire privilegiati, se lascia seduti a tavola e dispensa dal faticare.

Il rischio è di scordare ciò che siamo: servi sempre disponibili, impegnati ogni giorno a rendere la vita di tutti più bella e più leggera. In quest’ottica, l’aggettivo «inutili» (riferito da Gesù ai servi) è da intendere come «inutilizzati», non come «incapaci, inadatti, non all’altezza». Servi, dunque, che, avendo finito il lavoro, sono pronti a rimettersi all’opera. È normale, per chi non è ancora utilizzato, offrirsi: «Eccomi, sono libero… Disponi di me». Senza mettersi a tavola anzitempo e senza aspettare ricompense. Come fece Gesù, che «non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo» (Fil 2).

Per questo è opportuno rivedere il momento più alto di Gesù servo, quando si abbassa a lavare i piedi ai suoi. Un episodio riportato solo da Giovanni, bypassando il racconto dell’ultima cena. Lì Gesù non dà solo l’esempio, ma chiede espressamente d’essere preso a esempio: «perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13).

Quest’icona del servizio – da appendere nella stanza di quanti ricoprono un ruolo nella Chiesa – fa memoria di due movimenti del Signore: alzarsi da tavola e abbassarsi, facendosi ultimo. Per questo mette in risalto – anziché i segni del comando – gli attrezzi del servo, cioè l’unica dotazione necessaria al cristiano: l’asciugatoio e il catino. Oggetti umili, che raccolgono le sporcizie umane, le debolezze, le bassezze. Le puzze, direbbe papa Francesco. Il vescovo Tonino Bello li prese a simbolo, quando – parlando di Chiesa del grembiule – domandò: «Noi a chi laviamo i piedi?» (e proseguì constatando tristemente: «Noi lucidiamo le scarpe alla gente, quando abbiamo bisogno di qualcosa»).

Nel mosaico veneziano, dove l’abito di Gesù ha i colori dello sfondo per far emergere l’asciugatoio, emerge – curiosamente – anche l’acqua, debordando dal catino (è così anche nel monastero di Ossios Loukas, in Beozia). Seppure sbagliata o illogica (come il cielo dei disegni dei bambini, messo in alto perché sentito superiore), non si può credere – dalla qualità dell’opera – che i mosaicisti fossero incapaci di una rappresentazione corretta: che fosse un modo per farci vedere l’acqua e non compiacerci del catino?

Va pure notata un’altra cosa: il gesto di Pietro a indicare la testa («Non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!»). Che non si tratti di un dettaglio inutile, è provato dal fatto che venga spesso ricordato dagli artisti che si sono cimentati con la lavanda dei piedi.

Gesù risponde che «chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro». Certamente lo dice in funzione di Giuda, al quale è indirizzata l’espressione successiva: «Ma non tutti siete puri». Siamo però sicuri che Gesù volesse dire solo quello? L’espressione «non ha bisogno», non potrebbe innescare una riflessione sui servizi di cui non c’è bisogno? Non potrebbe essere utile meditare, oltre che sui “servi inutili”, anche sui “servizi inutili”? E sul rischio di idolatrare qualunque servizio?

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