Da diverse settimane su Clubhouse, il più recente e forse originale dei social, tra le ormai innumerevoli stanze che affollano la home, spicca per audacia quella curata da Alberto Ravagnani, sacerdote ambrosiano sempre pronto a cogliere le opportunità della rete per raggiungere i più giovani. Ogni mattina don Alberto commenta il passo del vangelo del giorno previsto dal rito ambrosiano, per poi lasciare spazio a brevi condivisioni. Tutto si svolge in 25 minuti. Mi è capitato di entrare qualche volta in questa stanza e ci sono rimasto volentieri, soprattutto per l’impressione di freschezza e autenticità che ne ho ricevuto.
Questa esperienza mi ha poi portato a riflettere su due aspetti.
Innanzitutto ho trovato conferma della difficoltà che abbiamo di solito nel condividere testimonianze sul vangelo. Notavo infatti come alcuni interventi, soprattutto quelli dei meno giovani, tendessero facilmente ad assumere la forma teorica e generica di ulteriori riflessioni, più che quella concreta della vita vissuta. Capitava che lo stesso don Alberto dovesse ricordare la ragion d’essere di quella stanza, per evitare che i brevi racconti diventassero brevi omelie.
Mi sono chiesto allora a cosa sia dovuta questa difficoltà. Semplicemente, credo che non siamo abituati a farlo, non ce lo hanno insegnato, ma soprattutto: non è affatto facile. Molto più comodo e immediato dare la nostra interpretazione, i nostri suggerimenti, fare discorsi sul vangelo, piuttosto che far parlare di vangelo la nostra stessa vita. Molto più facile aderire, a seconda della sensibilità e della formazione, a una fede intellettualistica o devozionale, piuttosto che mettersi in gioco in prima persona e spezzare il proprio vissuto per condividerne un pezzo, affinché vada a impastarsi insieme ad altri pezzi di vita in una dinamica di reciproca edificazione.
Probabilmente, però, questa difficoltà ha un’origine più profonda ed è legata cioè al fatto che, come sentivo ammettere da un sacerdote, noi cattolici abbiamo un grosso problema con la Parola. Ci farebbe bene riconoscere con onestà che in effetti, anche se spesso ci diciamo il contrario, essa non è alla base della nostra preghiera, delle nostre iniziative, del nostro stare insieme in quanto cristiani, delle nostre scelte quotidiane, del nostro stile di vita. Quantomeno, guardo alle esperienze di Chiesa vicine a me e mi rendo conto che è così.
Eppure, e giungo al secondo punto di questa riflessione, è proprio ciò di cui avremmo più bisogno, per diventare protagonisti di una salutare svolta nella vita ecclesiastica, senza delegare questa operazione a chi ricopre ruoli di guida, ovvero demandando tutto alla sensibilità particolare di un vescovo o di un papa. Non sarebbe questa una scelta deresponsabilizzante?
Il pontificato di Francesco ha suscitato da subito molte attese in coloro che da più parti auspicano un profondo rinnovamento della Chiesa. E in effetti la scelta del papa che proviene “dalla fine del mondo” si è rivelata senza dubbio provvidenziale per questo tempo storico, ma non perché è lui che deve rinnovare, lasciando a noialtri il più gratificante e meno compromettente ruolo dello spettatore, pronto a dire la sua su ogni singola parola o decisione, dopo averla passata al vaglio della propria bilancia, per verificare se pende a sufficienza sul versante dell’apertura. Non possiamo trasferire in questo campo la comoda logica del “like”, nella quale ci crogioliamo sui social. Qui c’è molto più da dare che da dire.
Ed è proprio in questo, mi sembra, che va colto il filo conduttore dell’attuale pontificato: tutti i gesti che Francesco ha compiuto negli ultimi otto anni vanno in questa direzione. La scelta di restare a santa Marta, la valigetta che continua a portare con sé sulla scala d’imbarco di ogni viaggio, gli innumerevoli atti di vicinanza e di tenerezza nei confronti della gente comune, il mettersi in ginocchio davanti a un confessionale per ricevere il sacramento, sono tutti indicatori di direzione che veicolano un unico, forte messaggio di fondo: qualsiasi sia il ministero ricevuto e la propria vocazione, ciascuno traduca il vangelo nella vita, a partire dai piccoli gesti quotidiani, che messi l’uno accanto all’altro generano uno stile.
In una parola: ciascuno dia il proprio contributo affinché come Chiesa si passi dalla sterile dimensione religiosa a quella della fede che si fa vita. È infatti questa costante tensione a declinare la Parola nell’esperienza di vita personale e comunitaria, che costituisce quella molla da cui può scaturire una vera rivoluzione cristiana. Per questo anche nei suoi interventi Papa Francesco insiste molto sulla necessità di tale passaggio a una fede vissuta, a una fede che ti rende migliore, che dà un senso pieno alla tua vita, nella misura in cui questa si apre alla dimensione dell’incontro: “La fede è un incontro, non è una religione. […] anche la Chiesa ha bisogno di rinnovare lo stupore di essere dimora del Dio vivente […]. Altrimenti, rischia di assomigliare a un bel museo del passato” (omelia del 1 gennaio 2019).
Ecco quindi il passaggio ulteriore: la Parola vissuta trova il suo banco di prova all’interno di quella prospettiva che lo stesso papa ha più volte definito “mistica dell’incontro” o “mistica della fraternità”. Perché è nell’incontro con l’altro che incontro l’Altro.
Ma come possiamo giungere a incontrare Dio nell’altro, se continuiamo a confondere la fede con la religione? se non riusciamo a dare alla Parola la centralità che le spetta? se ci siamo fermati a quel vago sentimento religioso che avevamo da bambini, con cui possiamo tutt’al più solleticare la nostra emotività, ma che di certo non ci aiuta a crescere? se le uniche esperienze comunitarie che viviamo sono quelle in cui siamo insieme ad altri, ma solo per consumare riti e atti devozionali?
Quanto sarebbe bello se l’esperimento che don Alberto ha avviato su Clubhouse divenisse prassi nelle nostre realtà ecclesiali, se nelle parrocchie si puntasse tutto sulla Parola e la vita comunitaria non ruotasse più intorno alla cosiddetta pietà popolare con tutte le sue dinamiche, ma si nutrisse di momenti vivi in cui poter mettere in comune esperienze di vangelo vissuto.
Allora sì che sperimenteremmo la dimensione dell’incontro. E la Chiesa sarebbe nuova.
Cristo Gesù IL Signore, IL Figlio di Dio, è venuto a cercare e salvare l’umanità perduta ,che è morta nei falli e nei peccati, e LUI ha annunciato il vangelo della Grazia, invitando Ebrei e pagani al Ravvedimento e alla conversione , perchè ricevessero il perdono dei peccati, “e di conseguenza la salvezza dell’anima” per la fede in LUI, InvocandoLO;
mentre l’affiliazione religiosa è fine a se stessa,
poichè senza Ravvedimento, si resta nella morte…, e L’IRA di DIO resta su chi rifiuta IL DONO di Dio e calpesta di Fatto IL Sangue del Figlio, vivendo una vita che non GLI da valore, non GLI da lode, ringraziamento, riconoscenza, così rifiutandoLO.
Saluti
Per il cristiano semplice la Parola e fondante segno di fede. Non vi è altra via più libera di questa. Nei momenti più critici che si vivono dove decisioni vanno prese e sono vitali in quanto implicano svolte, cambiamenti nel proprio stato, la Parola resta lì ferma. Ultima dopo aver consultato pareri, anche autorevoli da parte di ministri dell’ordine sacro. Neppure da questi viene il decidere più facile. La Parola e lì con la responsabilità che la libertà si materializza. In una escursione in montagna, nel salire c’era il mezzo sole, nello scendere nuvole pioggia e neve e buio da a malapena vedere il tracciato. Sollievo notare la luce del rifugio ma improvviso l’ostacolo, quel ruscelletto facile all’andata da superare con un passo lungo, era diventato vorticoso corso d’acqua.c’e voluto il coraggio di osare per arrivare ! Ecco la Parola e la sfida dove la fede vuole prova.Credo che questo sia stato esperimentato anche da Cristo
Angelo scrive:
Ma come possiamo giungere a incontrare Dio nell’altro, se continuiamo a confondere la fede con la religione?…
Concordo con lei.
Infatti La sacra scrittura è per i più che si professano cristiani, sconosciuta; è sconosciuto il piano di redenzione di Dio per la Sua creatura , morta nei falli e nei peccati.
Un morto non può avere comunione con Dio.
Allora ?
C’è bisogno di riconoscere il proprio stato di “Peccatore perduto senza Cristo”;
c’è bisogno di Ravvedersi e convertirsi al Signore Gesù..
C’è bisogno di credere in LUI col cuore e LUI Invocare chiedendoGLI di essere perdonati, salvati , Riconciliati col Padre e quindi di ricevere LUI LA Vita, da che si è morti,
ma i più non vogliono Ravvedersi; questo messaggio molto spesso stride con le proprie convinzioni, e di conseguenza si resta religiosi osservanti settimanali, o mensili…, ma pochi scelgono di prendere posizione e diventare Suoi discepoli..
Saluti
Angelo? Venuto dal Cielo?
Nichilo? A significare che…
Ritorno alla Parola…
Senza il linguaggio avremmo ragionamenti&fantasia??
Ma la Parola, come TUTTI i mezzi, i ‘tools’, si prestano a bene ma anche a male.
Quante volte ho visto, credo io stesso😭, brandire la Parola a mo’ di clava ….
Allora?? Mi pare che tu lo scriva:
Basta Gesù. Condizione necessaria e sufficiente.
Ricordo un incontro di Decanato che dovevo condurre. Non avevo avuto il tempo di preparare NIENTE. Una preghiera e un respiro. Parlai a loro con lo Spirito. Non parole. Solo sentire, contemplare, gioire, lodare, cantare.
Fu x me il + bello.