La Trinità non se ne sta sulle sue

«[Lo Spirito] non parlerà da se stesso... Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio…»
22 Maggio 2016

Santissima Trinità: Gv 16,12-15

ABRAMO E I TRE ANGELI (Marc Chagall, 1960-66, Nizza, Musée National Message Biblique Marc Chagall)

 

Quando qualcuno ci chiede una qualità di Dio, di solito scegliamo l’onnipotenza. Dimenticandone una che ha in comune con noi, se ci ha fatto a sua immagine e ci ha visto molto belli (Gen 1): la voglia di stare assieme agli altri.

Lo strano è, in un’immagine, non riuscire a dirlo in modo adeguato. Vorremmo cantargli inni «con arte» (Sal 47), tanto più nel giorno della sua festa, eppure sperimentiamo quanto sia difficile comunicare Dio come una comunità di amore.

L’arte occidentale – soprattutto tra Quattro e Cinquecento – ci ha dato delle Trinità metafisiche, che anche in terra sembrano stare in cielo. E dove è il solo Gesù crocifisso a rendere presente la storia. In molti casi (si veda quella celeberrima di Masaccio a Firenze, in S. Maria Novella) paiono delle nuove Pietà, in cui è il Padre a sorreggere Gesù. Ma lo Spirito, oltre a distinguersi a fatica, sa di posticcio, privo com’è di relazione con le altre due persone.

Per cambiare prospettiva, questa Trinità di Chagall si affida all’Antico Testamento, prendendo spunto dai tre viandanti ospiti di Abramo alle querce di Mamre (Gen 18): una pagina che deve aver toccato le corde dell’artista, se vi è tornato su – con varie tecniche – più di venti volte.

Che i viandanti – raffigurati come angeli – siano una manifestazione di Dio Trinità, si capisce dai dialoghi: dei tre è uno solo a parlare, in prima persona singolare; in più Abramo li chiama «mio Signore», dando loro sia del “tu” che del “voi”. Li aveva utilizzati anche Andrej Rublëv nella sua celebre icona, del 1422-27, che di Dio uno e trino coglie la circolarità dell’amore, facendo sparire le gerarchie e dipingendo ognuno volto verso l’altro. Con un’immagine più completa di quella basata sul rapporto d’amore a due (genitore-figlio o sposo-sposa).

Il merito di Chagall (e della Genesi, prima di lui) è di non fare della Trinità un simbolo fuori dal tempo ma di mostrarla in azione, mentre – «nell’ora più calda del giorno», in una luce di fuoco – riceve ospitalità da Abramo e Sara. Contento che l’uomo gli somigli… e contento pure di somigliargli, Dio imita Abramo nell’uscire dalla propria terra: la sua visita dice il desiderio di includere altri, di arricchire e di farsi arricchire da una famiglia umana.

Un’altra qualità di Dio che emerge dal racconto (e, chissà perché, mai rappresentata) è il suo volto sorridente. Per il piacere di donare gioia Dio, infatti, rende fertile Sara, facendo in modo che da due diventino tre persone, com’è lui. La coppia non sa far di meglio che un sorrisino scettico, credendo ai propri limiti (90 anni lei e 100 lui) più che a Dio. Solo alla nascita del figlio riconoscerà che Dio le ha dato «motivo di lieto riso». E ne lascerà traccia nel nome di Isacco: che significa «Lui ride» (o «Dio gli sorride») e farà memoria della felicità di Dio ogniqualvolta verrà pronunciato.

 

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