Domenica delle Palme: Lc 19,28-40
L’INGRESSO IN GERUSALEMME (particolare della Maestà) (Duccio di Buoninsegna, 1308-11, Siena, Museo dell’Opera del Duomo)
Se la sera precedente, a Betania, gli amici hanno organizzato per Gesù una festa privata, quel giorno gli abitanti di Gerusalemme – più la gente convenuta per la Pasqua – gliene fanno una di popolo. Non si può non osannare chi ha ridato la vita a un uomo sepolto da quattro giorni.
L’entusiasmo è alle stelle, come per una popstar, e sembra quasi improvvisato, l’evento, a giudicare da quanti sono ancora all’opera, soprattutto persone di giovane età. In realtà gli evangelisti non fanno cenno a questo particolare. Sono stati gli artisti di ogni epoca a immaginare che in una «folla numerosissima» – così scrive Matteo – non potessero mancare i ragazzi: impegnati a stendere mantelli sulla strada, a mo’ di tappeto; arrampicati sugli alberi, a lanciare rami; affacciati dalle mura e dalle finestre, a salutare…
Gesù ricambia l’accoglienza, facendo capire che razza di signore sia il Signore: è vero che entra acclamato come un re, ma, mentre un qualunque sovrano monterebbe in sella al cavallo più bello e più bardato, lui – disarmato e povero – siede su un’asina, che non ha voluto separare dal suo puledrino (un omaggio ai piccoli e alle madri?). Li aveva mandati a prendere nel villaggio di fronte (un dettaglio che qualunque reporter avrebbe omesso, giudicandolo ininfluente, ma necessario a Gesù per dare compimento alla profezia di Zaccaria). Assicurando (altro particolare “inutile”, riferito da Matteo e da Marco) che i due animali sarebbero stati rimandati indietro «subito»: difficile trovare dei re con tale delicatezza… (il suo scrupolo svela anche come lui avesse preparato l’evento).
Eppure, guardando da vicino i volti degli adulti, colpisce come siano tutti seri, da funerale più che da festa: forse era nell’aria che si stesse tramando per far fuori Gesù, questo re così poco regale e così sensibile, capace di dire parole tranquillizzanti, attento ai piccoli dettagli e alle piccole creature.
Da quel giorno, la tragedia si coglie nell’ambiguità dei segni, che aumenta: “fare la festa a qualcuno” comincia a significare un’altra cosa; anziché dire affetto, un bacio serve a identificare e a consegnare; un catino, nel giro di poche ore, viene usato per lavare i piedi e per lavarsi le mani, in un caso per farsi carico, nell’altro per non farsi carico.