Essere creature nuove

«Seguimi… Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio»
26 Giugno 2016

 

XIII domenica del tempo ordinario: Lc 9,51-62

LA VOCAZIONE DI SAN MATTEO (Caravaggio, 1600, Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi)

 

Che cosa capiamo, della sequela, da questa pagina di Luca? Che Gesù mette in guardia i seguaci troppo caldi e quelli troppo tiepidi. I primi li raffredda, ricordando loro le difficoltà («Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo»). Mentre a chi gli dice «Ti seguo, però lascia che…», replica: «Lascia perdere».

Un secondo aspetto della sequela è che Gesù non dà tempo. «Lascia che…, consentimi di…, dammi ancora un attimo» non si può dire: è adesso che si deve essere pronti a seguirlo.

Nella comunicazione di oggi – sosteneva padre Piero Gheddo – non si prenderebbero mai in considerazione degli attractor così poco efficaci. Un’attrattiva, comunque, doveva esercitarla, Gesù, indipendentemente dalla risolutezza, dal volto duro, dalla ferma decisione del Vangelo odierno.

Così siamo andati a rintracciare altre facce della sequela nell’interpretazione di un grande artista e persino nella fruizione di uno spettatore speciale. La Vocazione di San Matteo, del Caravaggio, benché vista decine di volte, va infatti riassaporata assieme a papa Francesco, che ama molto quest’opera. E che più volte ha raccontato quando, diciassettenne, dopo essersi confessato, avvertì la chiamata di Dio alla vita religiosa nel giorno della festa di San Matteo. Di cui San Beda il Venerabile scrive: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: “Seguimi”».

L’espressione «miserando atque eligendo», versione latina di «siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse», è diventata il motto del papa, che – come Matteo – si sente, ancor oggi, «un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi». E poiché miserando gli sembrava arduo da rendere, il papa l’ha tradotto con un gerundio inesistente ma efficace: misericordiando.

Il magnetismo di quello sguardo amoroso è solo intuibile nell’opera del Caravaggio. Però vediamo che il braccio disteso e la mano di Gesù, dai quali Matteo si è sentito scelto, sono molto simili al braccio e alla mano di Adamo, che Michelangelo dipinse nella Sistina: un chiaro collegamento tra la vocazione e una nuova creazione.

Se osserviamo poi la luce, ci accorgiamo che è simbolica, non naturale. Gesù sta infatti chiamando – in strada – un uomo che si trova nel buio. Fa l’esattore delle tasse, Matteo: un mestiere, a quel tempo, di avidi e corrotti. La luce è, dunque, quella della misericordia che chiama chiunque, anche chi è lontano, anche chi non merita (tra le vocazioni degli apostoli, in quella di Matteo è più marcato il passaggio dal male al bene).

Un altro particolare degno di rilievo è l’abbigliamento: mentre Pietro e Gesù sono in abiti antichi e a piedi nudi, gli altri personaggi hanno vestiti e calzature del tempo di Caravaggio (persino le sedie sono dello stesso periodo). Questo dice la capacità di Dio di visitare e di trasformare uomini e donne di ogni epoca.

Un cenno merita infine la figura di Pietro, aggiunta in un secondo momento: «non come una sorta di dazio da pagare ai committenti», scrive don Andrea Lonardo, ma per «la necessità che l’uomo ha di incontrare un testimone che lo rimandi al Cristo: è la Chiesa che rende oggi percepibile la chiamata di Cristo… È come se Gesù, nella tela, fosse “filtrato” da Pietro».

Sono tutte raffinatezze aggiunte dall’artista, che, non limitandosi a illustrare il testo, ha riprodotto ciò che sentiva. Arricchendo di significato la verità.

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