I martiri di traverso

Con la loro vita donata Nadia e padre Christian ci parlano da quel mondo malato che vorremmo evitare. Ascolteremo davvero il Vangelo che annunciano?
27 Aprile 2021

Una missionaria laica di 50 anni, colpita a morte in una delle troppe periferie violente dell’America Latina. Un giovane vescovo di 43 anni, gambizzato per intimidazione prima ancora dell’inizio del suo ministero in una diocesi del martoriato Sud Sudan.

In quest’Italia che non sa più guardare oltre tavolini, calcetto e coprifuoco, nelle ultime ore è arrivata – drammatica – la cronaca a ricordarci che esiste un mondo intorno a noi. Scuotendoci anche come comunità cristiana, con le storie di due missionari della generazione degli anni Duemila. Tutti e due, curiosamente, originari della stessa città, Schio, in provincia e diocesi di Vicenza. Partiti entrambi proprio quando in parrocchia iniziavamo a ripeterci sempre più spesso che la missione ormai è qui; che c’è troppo da fare nelle nostre città per andare a cercare avventure nelle periferie del mondo.

Nadia e padre Christian. Quelli che il bergogliano “siamo tutti sulla stessa barca” l’avevano già capito più di vent’anni fa; e ne hanno fatto il centro della propria vita, ben sapendo che questo poteva voler dire anche pagarne il prezzo. Nadia De Munari – in Perù con l’Operazione Mato Grosso – aveva detto sì all’ennesima intuizione di padre Ugo De Censi, l’inventore di questo grande ponte di solidarietà con la gente poverissima della Cordigliera delle Ande. Perché se – come accade un po’ dappertutto oggi nel mondo – tante famiglie dalle montagne scendono a Chimbote in cerca di fortuna, anche lì bisognava stare con loro. Così era nata la casa “Mama mia”, dove Nadia si prendeva cura dei bambini e dei ragazzi di quelle famiglie in un contesto per loro così difficile. “Anche noi abbiamo dovuto costruire sulla sabbia”, aveva raccontato in un’intervista a una radio locale tre anni fa, senza nascondere la fatica. Aggiungendo, però, anche il senso più profondo di quella missione: “Tutti siamo stati creati per donare agli altri e la cosa che ci rende più felici è scoprire che tutto quello che abbiamo, che sappiamo fare e che ci è stato insegnato, possiamo condividerlo con gli altri”. Condividerlo anche nella precarietà della vita in queste periferie del mondo. Come avevano già fatto – sempre in Perù, negli anni Novanta – Giulio Rocca e padre Daniele Badiali, anche loro uccisi in nome dell’amore evangelico per questi fratelli nato proprio attraverso l’Operazione Mato Grosso.

Lo stesso amore che ha portato padre Christian, missionario comboniano, ad accogliere un compito difficilissimo a Rumbek. Quando qualche settimana fa Papa Francesco lo aveva nominato abbiamo scritto tutti che diventava il vescovo più giovane del mondo (soli 43 anni) nel Paese più giovane del mondo (il Sud Sudan indipendente solo dal 2011). Ma i titoli troppo facili sono sempre pericolosi. Per esempio nascondono la fatica e le lacerazioni di una diocesi rimasta per dieci anni senza un pastore. E le tante contraddizioni di un Paese dove le tensioni tra le etnie, come sempre, sono armate da interessi ben più prosaici che si chiamano terra, bestiame, petrolio. «Perdono chi mi ha sparato, dal profondo del cuore, e chiedo di pregare per la gente di Rumbek che sicuramente soffre più di me», sono le parole che padre Christian ieri ha affidato a una radio sud-sudanese prima di essere trasferito a Nairobi per essere curato. Parole che ci chiedono di non fermarci all’emozione perché “hanno colpito uno di noi”; ma di guardare come il pastore ferito all’intero suo gregge.

Nadia e padre Christian. Due volti che si prestano ben poco alle denunce ad effetto sui cristiani perseguitati. Perché sono i martiri di una fede vissuta accanto agli ultimi, ai dimenticati, esposti ai mille pericoli della loro esistenza. Sono i martiri di quel mondo malato, con cui vorremmo avere a che fare il meno possibile (salvo poi alzare muri o vendere armi proprio lì). Sono i martiri che in un giorno di fine aprile, in questa Italia dove non c’è posto per nient’altro che le nostre lamentele, all’improvviso si mettono di traverso nella nostra ripartenza. Ritroveremo davvero il coraggio di ascoltare il Vangelo che le loro vite annunciano?

3 risposte a “I martiri di traverso”

  1. Daniele Gianolla ha detto:

    Grazie di questo articolo, che cerca di scalfire la superficie delle emozioni (pur necessarie) e apre uno squarcio sulle problematiche dure e complesse che travolgono le periferie del mondo (armi, petrolio, interessi stranieri…). Leggo sui social che padre Christian potrebbe essere stato assalito da bande cattoliche, rendendo ancora più complesso il quadro, per noi che troppo spesso cerchiamo confini netti dove non ci sono.

  2. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Aiutare, dare speranza,questo il Vangelo., ma anche il correre rischio di non essere bene accolti! E’ diverso da 2000 e più anni fa? No, Cristo è stato ucciso sempre per i motivi che esistono ugusali oggi. Li ha mandati a due a due, “vi mando come agnellini mezzo ai lupi” non portate borsa,, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.In qualunque casa entriate,prima dite “Pace a questa casa” Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano e dite loro:” è vicino a voi il regno di Dio….ma quando non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite:”anche la polvere della vostra città che si r attaccata ai nostri piedi, noi la svuotiamo contro di voi; sappiate che il regno di Dio è vicino” Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me.. Mi domando se la realtà sia come qui si legge? Sembra vi sia molta premura verso i mandati da parte di Gesu Cristo !

  3. Dario Busolini ha detto:

    Concordo pienamente ma ammetto di avere una grande paura: che sempre di più la possibilità del martirio, che la vocazione missionaria accetta da sempre, stia ormai diventando una certezza perché in troppe zone del sud del mondo o ti rapiscono, o ti rapinano o ti uccidono direttamente per soldi oppure per odio ideologico. E non so davvero come nel presente e nel prossimo futuro si possa continuare a fare missione senza dover garantire un minimo di sicurezza alle persone che partono e alle strutture che realizzano, col rischio però di cambiare in questo modo l’essenza stessa del missionario, cioè la totale donazione di sé, o rassegnandosi a vedere ciclicamente distrutte opere e inviati per dover ricominciare sempre di nuovo, con forze e mezzi che vengono meno.

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