Bibbia a scuola:ok,ma come?

Se l’obiettivo dell’accordo è quello di dare uno strumento per poter “leggere” la realtà dell’occidente, che indubbiamente si radica anche nella Bibbia, credo che si tratti di una buona idea, ma mi chiedo se questa è cultura biblica.
4 Gennaio 2011

L’avevo già visto a maggio, quando si era riunita la commissione paritetica del ministero e di Biblia, ma poi tra le varie cose, me ne ero dimenticato. L’Alzheimer avanza!

L’articolo di Vinonuovo, preso in rete di questa settimana, me lo ha ripescato. E mi ha fatto scappare dalle mani queste riflessioni. Il ministero della pubblica istruzione ha raggiunto un accordo con l’associazione “Biblia” per la diffusione della cultura biblica nelle scuole italiane. Non una materia aggiunta, ma una presenza diffusa della bibbia all’interno delle altre materie. Come al solito il mio “demone” si mette in moto, anche perché la cosa mi tocca sia come cristiano che come insegnante di religione. 

E la prima domanda che il demone impone è: a quale scopo questo accordo? Per aumentare la cultura biblica sta scritto, che notoriamente nel nostro paese è a livelli indicibili. Bene, ma mi chiedo cosa sia la cultura biblica. La mia collega di storia dell’arte, arriva quasi tutti gli anni a dirmi: “Mi fai almeno i quattro temi essenziali, annunciazione, nascita, ultima cena e crocifissione” e io, quasi tutti gli anni, le dico che se vuole la conoscenza del dato dei racconti non c’è problema, e fa parte dei fondamenti dei primi anni della mia materia. Ma questi dati sono davvero in pochi a non saperli, qualcuno in più tra chi arriva da altri paesi, ma parliamo di pochi ragazzi su una intera classe. Se invece vuole una lettura del significato culturale di questi racconti nella storia dell’arte sarebbe bene fare un percorso interdisciplinare; e infine se vuole una lettura del significato cattolico di questi racconti è quello che già faccio nella mia ora, ma secondo un programma che non sempre coincide con le scansioni di quello di storia dell’arte. 

Nel marzo scorso, presentando la religione ebraica in quinta ho parlato anche del concetto di “capro espiatorio”, con gli annessi storici-culturali, il significato ebraico, quello cristiano e quello “latamente” culturale di questa espressione. Poche settimane dopo la prof. di italiano mi ferma nel corridoio e mi dice: “Ho visto con piacere che hai fatto il tema del capro espiatorio, mi serviva proprio per parlare di Kafka”.

Se l’obiettivo dell’accordo è quello di dare uno strumento per poter “leggere” la realtà dell’occidente, che indubbiamente si radica anche nella Bibbia, credo che si tratti di una buona idea, ma mi chiedo se questa è cultura biblica. A me sembra più “istruzione biblica”, ad uso e consumo di altre materie, per sgravarle di una parte di precondizioni cognitive necessarie e poter degnamente svolgere il loro percorso. Lodevole e assolutamente indispensabile! Ma non si può chiamare cultura! E se l’idea dell’accordo fosse solo questa, non mi sembra nemmeno una novità, perché già da tempo si cerca di farlo di fatto in molte scuole italiane.

Ma nelle letture che ho trovato in giro su questo accordo la questione mi sembra più ampia. Almeno su due aspetti. Primo. Si insiste sul fatto che la Bibbia è un “classico”, cioè appartiene a quei testi che sono in grado in ogni epoca di “lavorare” sul livello profondo dei significati dell’uomo e della realtà, e come tali non mai superabili. Quindi va letta non solo per saper “leggere” il nostro mondo, ma anche come luogo di confronto e scontro che mira a definire dei propri principi culturali. E anche su questo posso essere d’accordo, ma credo che bisogna fare almeno una precisazione. La Bibbia è una biblioteca intera, scritta nell’arco di circa 1500 anni, da una cinquantina circa di autori. In questo senso è una pluralità di culture bibliche. Un mio studente qualche anno fa leggendo “Qoelet” per diletto personale, è arrivato a rinforzare molto bene il suo pessimismo quasi cosmico. Ad altri piace molto quando si legge l’Apocalisse, perché ci trovano dentro quasi dei videogame di guerre galattiche. 

Voglio dire che di per sé i 73 libri che la compongono possiedono una unitarietà e un valore di “classico” solo a condizione che se ne rintracci il filo ermeneutico della storia della salvezza. Altrimenti la lettura di singole storie o tracce finisce per essere utilizzata come una specie di armadio-archivio “astorico” da cui estraggo ciò che mi serve in quel momento, rispetto al mio presente, ma senza poter cogliere il filo di fondo che stabilisce il senso di quella storia biblica. E allora credo che anche qui parlare di cultura biblica sia eccessivo.

E qui entra in gioco la seconda osservazione. Se si mira a costruire una cultura biblica, nel senso alto del termine, non si può saltare una scelta di campo nel principio interpretativo che si usa. La aconfessionalità non esiste in questo senso. Anche i confini materiali stessi del testo sono frutto di interpretazione confessionale. Quale bibbia facciamo leggere a scuola? Quella ebraica? quella cattolica, quella protestante, quella geovista?

E se l’accordo avesse come scopo proprio quello di “suggerire” che una lettura presuntamente aconfessionale finisce per essere fortemente vicina nella interpretazione a quella cattolica? Non è un caso che Gianpaolo Anderlini, direttore della rivista QOL, nonché membro della commissione didattica centro nord di Biblia dica chela lettura della Bibbia, sia in un contesto di carattere letterario sia in ambito storico, non può sovrapporsi all’insegnamento della religione cattolica o porsi i medesimi obiettivi sia formativi sia educativi”. Ma non  da soluzioni e semplicemente si limita a dire che “è necessario differenziare fin dall’inizio l’approccio per evitare polemiche, sovrapposizioni, incomprensioni, frustrazioni o rifiuti”. Il ché mi spinge a pensare che forse la chiarezza su ciò che si vuole ottenere non è poi così evidente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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