Su Federica e don Andrea

Credo che si dovrebbe davvero ragionare, come Chiesa, sulla possibilità di formare dei preti che siano capaci di ascoltare davvero, prima che di voler dire qualcosa. Perché questa oggi, almeno per i giovani, è una priorità sociale assoluta.
11 Novembre 2011

Da qualche anno, in questa ora autunnale, arriva puntuale da Roma, tramite l’ufficio della Curia, la scheda di rilevazione del numero degli studenti che si avvalgono dell’insegnamento della religione. Negli ultimi tre anni, a conti fatti, ho perso l’11% degli avvalentesi delle mie classi. Ovviamente una domanda me la sono fatta. E sono andato a cercare di capire cosa sta succedendo. E ho scoperto, rimestando un po’ nei numeri, che la perdita è dovuta per il 72% alle classi prime, per il 21% alle classi quinte e il rimanente 7% si distribuisce tra le altre classi. 

Su quelli delle quinte qualche lume l’ho trovato: voglia di studiare per l’esame, la maggiore età come libertà di decidere, la voglia di fare nulla, un insegnante incapace. E ci sta. Nessuno è perfetto, per grazia di Dio. Anche sulle classi prime qualche idea ce l’ho: tre anni di medie in cui hanno “sopportato” la religione, la poca voglia di studiare, la provenienza da altre culture religiose, o il desiderio di sentirsi grandi.

In questi giorni ho aggiunto un altra motivazione alla lista delle classi prime. In corridoio, a ricreazione arriva Federica, 15 anni quasi, biondina, carina, dolce quanto basta da avere già attirato l’attenzione dei “quintarini”. Lei lo sa e si gongola. Però ha una testa non male, a prima vista almeno, e soprattutto è sensibile, con un fondo solido. Arriva da una scuola media di collina, a 30 km dalla città. 

“Prof., ma se io volessi fare religione come devo fare?”. Ero sovrappensiero e mi ha spiazzato. “Non ho capito Federica, cosa vuoi dire?”. Eh prof, ho pensato che forse mi piacerebbe fare religione. Prima in classe mi è piaciuto come ha fatto lezione!”. Ho abbozzato un sorriso ironico: “Ché, ci stai provando a srufianarmi?”. Risata generale, anche delle sue due amiche. “No prof, è che davvero, insomma, io no faccio religione, ma lei mi ha fatto ugualmente parlare, e soprattutto mi ha ascoltata. Non mi capita quasi mai di trovare qualcuno che mi ascolta su queste cose. Io ci penso spesso a cosa sto  a fare qui e robe simili. E le domande che in classe sono saltate fuori sono pese. Don Andrea, il mio parroco, quando gli dico queste cose, non mi lascia neanche finire che ha già la risposta pronta. Magari è anche giusta, però cavolo, io penso che dovrei provarci io a trovarle le risposte, o almeno a provarci”. 

“Ah, quindi ti capita di parlarne anche con lui di queste domande…” “Sì certo, però con lui, insomma, non lo so è come se si dovesse seguire una strada già fatta e che tu devi solo camminarci sopra. Non credo che mi capisca davvero, per lui le persone devono fare tutte la stessa cosa, già decisa, che va solo imparata e fatta”. “E a te questo non piace, mi sembra di vedere…” “Eh, no prof. Se io ho dei dubbi vorrei avere un modo per risolverli, ma come decido io. E non per diventare uguale a tutti gli altri, dai!! Lei ha fatto tre lezioni e mi sono piaciute, perché lei lascia che noi possiamo cercarci le cose, poi dice anche quello che pensa lei, ma non vuole imporcelo”.

Non conosco questo don Andrea, ma nelle parole di Federica ho la sensazione che risuonino le voci di tanti ragazzi e ragazze, che hanno un disperato bisogno di essere ascoltati da un adulto, da qualcuno che non abbia come prima risposta quella di dare soluzioni di giudicarli, di voler indagarli, magari per capirli meglio. Ma solo di essere una specie di specchio che gli rimanda la loro parte migliore, perché la possano vedere e riconoscere. 

Ma nelle parole di Federica sento anche molto l’eco di un modo di essere prete che trovo spesso in giro. Un prete che, preso dalla buona intenzione di voler annunciare la Verità di Cristo, non perde un secondo a dirla appena una domanda possa aprire un varco dove offrirla. E così facendo non si accorge che la persona che ha davanti sta invece ancora maturando qualcosa che sta prima: il tempo del dubbio, il quale, solo quando è maturo, può aprire ad una risposta convinta e non appena messa li a fare da tappabuchi. 

Certo il prete è fatto per annunciare, per insegnare anche, e questo è certo. Ma il problema è del modo con cui lo si fa. E ho l’impressione che il modo sia anche frutto (non solo), della formazione di questi preti. E non mi riferisco tanto alla struttura seminariale o meno, ma allo stile, in cui ancora prevale l’idea che il prete deve dire e dare Gesù, rischiando di mettere in ombra la sua dimensione umana di uomo che cerca Dio e in questa ricerca fa strada accanto ai suoi fratelli. 

E credo che si dovrebbe davvero ragionare, come Chiesa, sulla possibilità di formare dei preti che siano capaci di ascoltare davvero, prima che di voler dire qualcosa. Perché questa oggi, almeno per i giovani, è una priorità sociale assoluta, che se sapessimo assumere come metodo della relazione credo davvero ci aprirebbe tante porte per annunciare Cristo.

“Prof. è per questo che avevo scelto di non fare religione, – conclude Federica – perché non sopporto che chi mi puoi aiutare nei miei dubbi, per prima cosa non mi ascolti”.

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