Tracce romane di sinodalità

Molte consonanze e alcune domande sull'intervento del vescovo Palmieri nel dibattito dedicato dall'Osservatore Romano al fenomeno delle "chiese vuote"
12 Giugno 2021

Da qualche mese l’Osservatore Romano ospita un’interessante discussione avviata da Pier Giorgio Gawronski sulle cause e i possibili rimedi del fenomeno (europeo) della «chiese vuote», intitolata non a caso «sabato italiano» per evocare le chiese buie e silenziose del sabato santo. In attesa di potervi tornare in maniera più compiuta – e senza dimenticare che con Gilberto Borghi e Sergio Di Benedetto abbiamo già incrociato qui le riflessioni di uno dei protagonisti – vorrei concentrarmi subito sull’ultimo intervento, quello dell’arcivescovo Palmieri vicegerente della diocesi di Roma o, come ama essere chiamato, don Giampiero.

Un intervento che, lo dichiaro subito, ho sentito decisamente consonante (a volte persino nelle singole parole), soprattutto con quanto ho scritto di recente sul Sinodo secondo Francesco. Una piena confessione del non aver saputo – pastori e comunità – «intercettare» i cambiamenti antropologici avvenuti nell’ultimo cinquantennio, restati spesso «neanche ascoltati» e dunque «non compresi». Con conseguente impossibilità di elaborare «una nuova idea e una nuova azione evangelizzatrice adatta ai contesti ormai mutati». Soprattutto quando si è trattato – e si tratta sempre più – di «buttarsi nella mischia (…) anche con chi è lontano da noi o forse ci è nemico», riconoscendo definitivamente il fatto che «il protagonista di tutto è lo Spirito».

Perché, come avevo sottolineato nel mio contributo, qui risiede il punto decisivo. Oltre all’importanza di un «approccio col mondo fatto di umiltà, disinteresse, testimonianza di Beatitudine» (come richiesto da Francesco a Firenze nel 2015), la questione è se e quanto crediamo (ancora) che in questo mondo cambiato – a tal punto da apparire (o, a volte, essere) «lontano o nemico» – si possano «cogliere i segni della presenza e dell’azione di Dio nella Storia», «anche al di là dei confini dell’appartenenza ecclesiale».

Ovviamente, «non è sempre facile, agevole, scoprirla, saperla cogliere», sia perché ciò avviene spesso «non nel “mentre” ma nel “dopo”: nel compimento», sia perché queste «cose di Dio», questi segni dei tempi spesso non li «cerchiamo insieme, in maniera sinodale», attraverso quel «dialogo» che – riconosce con coraggio don Gianpiero – è stato nella storia passata e recente della Chiesa, «specie» romana, «quasi completamente accantonato», mentre «abbiamo privilegiato in maniera esclusiva il termine “testimonianza” (intesa come un movimento unidirezionale: da noi al mondo)».

In effetti, affinché il cammino sinodale possa essere «la fessura principale attraverso cui permettiamo allo Spirito di parlare», questo dialogo da recuperare con urgenza presuppone innanzitutto un «ascolto» che sia bidirezionale: aperto realmente dalla convinzione che «non so già tutto», soprattutto se questo so di non sapere riguarda, appunto, «il ‘nuovo’ di Dio», il «Senso donato dallo Spirito» che ci viene incontro «imprevedibile» – a volte nel «grido» dell’altro, dal mondo dell’altro, dall’altro mondo – così da garantire che non venga presentato un «cristianesimo annacquato» nella sua identità, ma creando al contempo le condizioni affinché la Chiesa torni ad essere veramente creativa e profetica.

I tre «esempi eclatanti» di questa «autoreferenzialità» ecclesiale che don Gianpiero evidenzia – i giovani, le donne e i poveri – mi appaiono perciò ancora più significativi. Dei giovani non si sarebbe colta né si riuscirebbe ad intercettare «una ricerca spirituale profonda, seppur diversa dai canoni che siamo abituati a riconoscere». Delle donne non si sarebbe capita, anzi si sarebbe osteggiata e criticata, la richiesta di «essere riconosciute come protagoniste della vita sociale, lavorativa, ecclesiale». Riguardo i poveri, infine, non ci si sarebbe accorti del fatto che «la forbice sociale si è allargata terribilmente e pericolosamente».

«Bene!» – esclamerebbe più di uno – soprattutto perché don Gianpiero riconosce il conseguente cortocircuito relazionale: «questi giovani in ricerca non vengono da noi per condividere le loro domande! Ci hanno relegati al mondo dell’infanzia»; il «legame di fiducia con le donne è seriamente compromesso. In tanti casi sono le donne, le ragazze, le più arrabbiate con noi». Addirittura alzando il velo «sul fatto che, mentre nelle nostre parrocchie i giovani e gli adolescenti sono spesso una rarità, l’insegnamento della religione [IRC] a scuola registra ancora oggi in Italia un’adesione del 86% degli studenti. Questa dovrebbe interpellare la Chiesa in uscita».

Il riconoscimento dell’IRC quale ultimo lembo del mantello (del corpo) di Cristo oggi toccabile da molti giovani (e relativi familiari) rende onore a un lavoro quasi quarantennale e ai suoi indubbi risultati (da pochi previsti nella Chiesa stessa e al di fuori di essa). Ma, giunti a questo punto del climax argomentativo, don Gianpiero si chiede «come intercettare questa domanda al di là degli insegnanti di religione» (corsivo nostro). E allora non possono non essere sollevate alcune domande determinate proprio dalla consonanza sopra evidenziata.

Perché quell’«al di là», percepibile e da alcuni percepito come leggermente dissonante rispetto al resto della melodia? Concesso sicuramente il senso benevolo del non adagiarsi su ciò che già sembra funzionare, perché non domandarsi invece e innanzitutto come intercettare, anzi prima ancora come ascoltare e comprendere il mondo giovanile tramite, con, insieme agli e – lo si noti – alle (molte di più) insegnanti di religione? O, meglio ancora, agli e alle insegnanti tout court? Quante cose (di Dio?) si potrebbero scoprire riguardo la problematicità dell’espressione «c’è una domanda di senso molto forte» o a proposito delle vere e proprie rivelazioni su di sé vissute durante le esperienze di volontariato…

Non si corre altrimenti il rischio di dimenticare che almeno l’insegnante di religione è, dal punto di vista ecclesiologico e canonico, già Chiesa (con munus docendi) e, per di più, Chiesa in uscita o estroversa? E che, però, tale uscita o estroversione pastorale avviene su un mandato vescovile di cui, forse, bisognerebbe sancire oltre ogni equivoco il contenuto culturale, cioè teologico-fondamentale di frontiera (e non di trincea), appunto dia-logico? Dunque complementare (quanto al soggetto e all’oggetto) ma distinto (quanto allo scopo) rispetto alla catechesi e alla evangelizzazione? E quindi – come si diceva un tempo – pre-evangelizzatore o – nell’antichità – dedito alla preparatio evangelii? Insomma, dato che si parla di «rilancio dell’evangelizzazione degli ambienti di vita», non potrebbe invece essere questo luogo – di ascolto – fuori dal recinto ciò che semplicemente, in quella fase della vita, cercano i giovani? Ci si ricorda, poi, che tra i giovani ci sono moltissime di quelle «ragazze arrabbiate» che stanno a cuore a don Gianpiero? E che, inoltre, moltissime di altre «donne arrabbiate» le incontriamo, in qualità di madri, durante i ricevimenti mattutini o pomeridiani? Risalta, allora, il ruolo di mediatore/mediatrice (culturale e affettivo) – e a volte di vero e proprio accompagnatore/accompagnatrice (spirituale) – che l’insegnante può assumere? Infine, dato che don Gianpiero evoca alcune recenti «esperienze forti di evangelizzazione» dagli «orizzonti nuovi», non sarebbe importante conoscere anche quanto gli studenti e le studentesse ci restituiscono a proposito delle possibilità e dei limiti – già riportati in passato da don Paolo Asolan – delle modalità di testimoniare (o di esibire?) la propria identità da parte degli appartenenti ai vari movimenti ecclesiali operanti nelle diocesi?

In conclusione del suo intervento don Giampiero ci ricorda, a tal proposito, la «sperimentazione» romana dell’«istituzione delle Equipe pastorali»: «laboratori con una sensibile capacità di ascolto» e «conoscenza del territorio e dei suoi bisogni», ma anche «con una dialettica interna vivace che premi il pensiero». Ecco, potrebbe essere indicativo della consapevolezza ecclesiale delle questioni appena poste sapere quanti insegnanti – di religione, ma non solo – sono stati chiamati ad essere in esse presenti (perché questo è decisivo, più che l’essersi o non essersi proposti come membri delle stesse). Oppure sapere se queste equipe pastorali hanno sentito l’urgenza di contattare e ascoltare gli insegnanti, proprio per il loro poter essere eco delle novantanove pecorelle ormai fuoriuscite dal recinto. Sono anni che si annuncia nella diocesi di Roma la volontà di strutturare questo ascolto e, sicuramente, la pandemia ha rallentato l’input provenuto dal cardinal vicario De Donatis nel 2017 e nel 2019. Sembra che ora qualche prefettura abbia organizzato un primo incontro. Ma, data l’urgenza della questione, perché non in tutte? Questo incontro, poi, come è andato? Resterà isolato o diverrà una sana abitudine? Perché non procedere allora con la creazione di una vera e propria consulta diocesana (e regionale) della scuola, come peraltro previsto già trent’anni fa nel sussidio Fare pastorale della scuola, oggi, in Italia (§30-31.47, Ufficio Nazionale CEI per l’Educazione, la Scuola e l’Università, 1990)?

Come al solito, in tempi di crisi e di riforme, offriamo più domande che risposte, nella speranza, se non di riceverne qualcuna, almeno di preparare il terreno perché esso ne riceva il seme di qualcuna…

Una risposta a “Tracce romane di sinodalità”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Perché le pecore sono fuori dall’ovile? Il pastore se ne rammarica, se per prolungata sua assenza o di essersi fidato che non l’avrebbero fatto. E’capitato che un genitore allarmato denunciasse l’assenza del figlio il quale con un compagno senza dire erano partiti per andare a vedere il mare!. Un esempio fra tanti: ascoltare il figlio, l’altro/altra/altri,la classe, il l’amico, il collega e’ prima più importante se si desidera guadagnare la fiducia , quell’approccio che è dettato da un interessamento sincero verso la persona cui parliamo,, come Gesù che è Ha letto il desiderio che ha mosso Zaccheo a salire sopra l’albero per vederlo passare e a farlo incontrare con il suo . Che l’interlocutore percepisca un che qualcuno intervenga alla fine di aver posto un seme che germoglierà in futuro. ma un incontro che non produca domande,,risulta deludente da ambe le parti, appare vuoto, questo che viviamo

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