Tra immobilismo e riforma delle strutture: chi la spunterà?

Il 9 e 10 ottobre è cominciato il processo sinodale della Chiesa universale ed è già chiaro il dilemma che lo caratterizzerà...
16 Ottobre 2021

Questa volta, con un pizzico di autoironia, bisogna ammetterlo: mi ero appena permesso (qui) di far notare a Papa Francesco che nel discorso alla diocesi di Roma «avrei evitato quel passaggio anche solo lievemente critico sulla riforma delle strutture («la Chiesa non si rafforza solo riformando le strutture – questo è il grande inganno!»)», quand’ecco mi accorgo che, nel recente momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale, era già contenuta la risposta.

Dopo aver messo il «formalismo» al primo posto tra i «rischi» da evitare nel Sinodo incipiente, il vescovo di Roma ha anche indicato, come prima delle «opportunità» ad esso legate, la necessità sostanziale «di strumenti e strutture che favoriscano il dialogo e l’interazione nel Popolo di Dio, soprattutto tra sacerdoti e laici». Divieto papale, dunque, di «ridurre il Sinodo a un evento di facciata per dare una bella immagine di noi stessi», a fronte di un invito pressante, a «incamminarci non occasionalmente ma strutturalmente verso una Chiesa sinodale: un luogo aperto, dove tutti si sentano a casa e possano partecipare».

Ora, come già qui segnalato, tale «sfida per una “Chiesa diversa”» anche nelle sue strutture, non viene affrontata da Francesco prendendo il toro per il corno della democratizzazione della Chiesa, pur ribadendo con forza che la partecipazione reale di tutti al Sinodo discende dall’«uguale dignità dei figli di Dio» quale «esigenza della fede battesimale» (1 Cor 12,13) – in altri termini, dal sacerdozio universale dei battezzati. Ma, il corno che viene afferrato, è quello della decostruzione evangelica del Potere e dell’Autorità: denunciando, da un lato, il fatto che «siamo costretti a registrare il disagio e la sofferenza di tanti operatori pastorali, degli organismi di partecipazione delle diocesi e delle parrocchie, delle donne che spesso sono ancora ai margini»; dall’altro lato, il fatto che «a volte c’è qualche elitismo nell’ordine presbiterale che lo fa staccare dai laici; e il prete diventa alla fine il “padrone della baracca”», incarnazione dello «spirito clericale e di corte», «più monsieur l’abbé che padre».

Ma, proprio per quanto ribadito dal Papa in termini di riforma delle strutture, alla denuncia non è sufficiente che segua la mera constatazione della necessità di «trasformare certe visioni verticiste, distorte e parziali sulla Chiesa, sul ministero presbiterale, sul ruolo dei laici, sulle responsabilità ecclesiali, sui ruoli di governo e così via». Certe visioni si sostanziano e si incarnano in norme e istituzioni che è necessario modificare o creare ex novo: non si potrebbe, ad esempio, immaginare qualche procedura più trasparente e meno delatoria o a rischio di chiacchiera per denunciare all’autorità ecclesiale superiore le suddette derive padronali (di presbiteri o laici) che avvengono in parrocchia e diocesi? Altrimenti si ricadrebbe nel secondo rischio – anzi, «veleno» – segnalato da Francesco: quello dell’«immobilismo» sinodale, dell’adottare «soluzioni vecchie per problemi nuovi: un rattoppo di stoffa grezza, che alla fine crea uno strappo peggiore (cfr Mt 9,16)». Ecco, forse, almeno in questo senso, non è giunta l’ora di muoversi un po’?

Pensiamo anche a quanto era stato affermato quasi tre anni fa nel § 244 della Christus vivit: «Il carisma dell’ascolto che lo Spirito Santo fa sorgere nelle comunità potrebbe anche ricevere una forma di riconoscimento istituzionale per il servizio ecclesiale». Una sorta di interessante e promettente ministero dell’ascolto che, però, è restato lettera morta, a livello sia di «ripensamento» delle «priorità» del ministero presbiterale, sia di riqualificazione dell’accompagnamento da parte dei consacrati e dei laici.

Eppure, anche nel momento di apertura del processo sinodale – e poi nell’omelia, Papa Francesco ha ribadito con forza che dobbiamo lavorare seriamente per essere una «Chiesa dell’ascolto», «aperta alla novità che Dio le vuole suggerire», «alla voce dello Spirito» che parla nei «fratelli e sorelle», al suo «respiro sempre nuovo». Un ascolto non «distaccato, infastidito o disturbato» o, peggio ancora, «indifferente, di fretta, di circostanza», magari offrendo «una risposta di rito, una soluzione preconfezionata» o «risposte prêt-à-porter, artificiali e superficiali». Un ascolto fatto, invece, «con il cuore e non solo con le orecchie», offrendo innanzitutto «attenzione, tempo, disponibilità a lasciarsi interpellare, toccare dalle domande, dal volto e dalla storia dell’altro». Un ascolto nello «stile di Dio»: che è «vicinanza, compassione e tenerezza», che «ci raggiunge là dove siamo, sulle strade a volte dissestate della vita», che «si fa carico delle fragilità e delle povertà del nostro tempo».

D’altra parte, per quanto sperimentiamo quotidianamente – di noi e degli altri, questo obiettivo di non insonorizzare il cuore non può che essere «un esercizio lento, forse faticoso». L’altro, l’alterità – scoperta in sé o nel prossimo da «una Chiesa della vicinanza» – ci mette «in discussione», «ci cambia e spesso ci suggerisce vie nuove che non pensavamo di percorrere. (…) Tante volte è proprio così che Dio ci indica le strade da seguire, facendoci uscire dalle nostre abitudini stanche», mostrandoci «verso quale direzione vuole condurci» per «liberarci delle nostre chiusure e dei nostri modelli pastorali ripetitivi», dalle «nostre idee e i nostri gusti personali».

Qui emerge un altro esempio di quanto sia scottante la questione degli strumenti e delle strutture di dialogo, ascolto e interazione. Nel messaggio conclusivo del momento di riflessione per l’inizio del processo sinodale, il segretario generale del Sinodo, il cardinale Mario Grech, ha posto una domanda, sullo strumento del voto, che potrebbe apparire tanto azzardata quanto sensata e veritiera: «per quanto sia consapevole che anche in concilio il consenso dell’aula è misurato dal voto, mi chiedo e vi chiedo se non dobbiamo riflettere su questo punto, per trovare altre soluzioni per verificare il consenso… È così impossibile immaginare, ad esempio, di ricorrere al voto sul Documento finale e sui suoi numeri singoli solo quando il consenso non sia certo? Non basta prevedere obiezioni motivate al testo, magari firmate da un numero congruo di membri dell’Assemblea, risolte con un supplemento di confronto, e ricorrere al voto come istanza ultima e non desiderata?». Prosegue poi Grech: «se invece di terminare l’assemblea consegnando al Santo Padre il documento finale, facessimo un altro passaggio, quello di restituire le conclusioni dell’assemblea sinodale alle Chiese particolari? Il consenso sul documento potrebbe non limitarsi solamente al placet del Vescovo, ma estendersi anche al popolo di Dio da lui nuovamente convocato. In questo caso il Vescovo di Roma riceverebbe un documento che manifesta insieme il consenso del Popolo di Dio e del Collegio dei Vescovi».

La domanda può apparire un azzardo, anche se un po’ paradossale, poiché avviene all’interno di un processo (sinodale) che già di per sé tende continuamente a precisare i suoi confini con le «dinamiche democratiche» e la sua distanza dalle «logiche della maggioranza e della minoranza». Involontariamente umoristico, poi, è il fatto che – sia detto con affetto e rispetto – tale domanda venga posta proprio quando una donna, la stessa sottosegretaria di Grech (sr Nathalie Becquart), potrà finalmente votare in un’assemblea sinodale dei vescovi. D’altra parte, i «due suggerimenti» possono apparire anche sensati e profondamente veritieri, per l’obiettivo – speriamo non troppo escatologico – che si vuole raggiungere: un ascolto che sia il più duraturo e universale possibile e che – come dichiarato in un’intervista dallo stesso Grech – ci condurrà «forse, un giorno a un momento in cui non ci sarà più bisogno del voto».

Mi sembra chiaro, in realtà, come dietro tali domande si agiti ancora quanto avvenuto dopo il sinodo sull’Amazzonia e la pubblicazione della corrispondente esortazione papale. Alcune soluzioni relative a certi nodi ecclesiologici e pastorali (diaconato femminile, viri probati, etc.), nonostante avessero ricevuto l’ampio consenso necessario da parte dei padri sinodali, non sono state poi recepite nell’esortazione post-sinodale. Con la motivazione, diffusa prima da Civiltà Cattolica – e poi ripresa da Francesco in diversi interventi, secondo la quale il discernimento operato dal Papa lo ha condotto a valutare le soluzioni votate dai padri sinodali come «posizioni ideologiche, dialettiche e antagoniste», guidate meno dallo Spirito Santo che da uno «spirito cattivo». Da quello che Papa Francesco definisce il rischio dell’«intellettualismo» (e su cui dovremo giocoforza ritornare): «la realtà va lì e noi con le nostre riflessioni andiamo da un’altra parte (…) finendo per ricadere nelle solite sterili classificazioni ideologiche e partitiche e staccandosi dalla realtà del Popolo santo di Dio, dalla vita concreta delle comunità sparse per il mondo».

Ora, se questo è quanto effettivamente avvenuto, ha fatto bene Francesco a “rimandare a settembre” i lavori sinodali per insufficiente qualità spirituale. Certo è che l’attuale segreteria generale del Sinodo sembra consapevole che bisognerà fare il possibile per evitare di ritrovarsi nella stessa situazione al termine del processo sinodale appena cominciato, perché tale esito costituirebbe per tutti un fallimento clamoroso. Di conseguenza, essa sta comprensibilmente cercando – anche attraverso «rilievi» come quelli del cardinal Grech – di trovare sentieri alternativi che non si rivelino alla fine ugualmente interrotti, confermando però al contempo l’ineludibilità della questione degli strumenti e delle strutture che favoriscono il dialogo e l’interazione dentro il popolo di Dio: l’ineludibilità di quella che anche monsignor Castellucci ha definito una «conversione a livello strutturale».

Si comprende ancor più, in tal senso, la preghiera finale del Papa:

Vieni, Spirito Santo. Tu che susciti lingue nuove e metti sulle labbra parole di vita, preservaci dal diventare una Chiesa da museo, bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire. Vieni tra noi, perché nell’esperienza sinodale non ci lasciamo sopraffare dal disincanto, non annacquiamo la profezia, non finiamo per ridurre tutto a discussioni sterili. Vieni, Spirito Santo d’amore, apri i nostri cuori all’ascolto. Vieni, Spirito di santità, rinnova il santo Popolo fedele di Dio. Vieni, Spirito creatore, fai nuova la faccia della terra. Amen.

 

3 risposte a “Tra immobilismo e riforma delle strutture: chi la spunterà?”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Anche le omelie cambierebbero se sintonizzate al l’aver ascoltato lo spirito di quelle persone che fidenti hanno sentito il bisogno di consultare ciò che la Parola ha da indirizzare sulle scelte che la vita quotidiana impone. E’ dalla domanda vera, reale, spontanea che esige una risposta, la opportunità della Chiesa di essere Magistra, ci si aspetta questo, e deve esserlo in ogni occasione a essere interpellata ma anche da quel l’incontro comunitario che è la Messa, dove la Parola di Dio viene aperta(Cristo e esempio si è espresso in similitudini quelle del suo tempo, che tutti quelli la presenti potevano comprendere il messaggio. Aprire il rotolo, anche oggi in un tempo dove Lui è tenuto distante da tanti luoghi, famiglia, scuola; la Carità è praticata ma è indispensabile che vi sia supportata dal messaggio per una conversione di mente e cuore.

  2. Francesca Vittoria Vicentini ha detto:

    L'”ascolto” oggi sembrerebbe essere il bisogno primo, più del pane, perché malgrado tanti strumenti tecnologici inventati, questi sembrano aver allontanato quello di un sentire amico, confortevole soccorritore. Si sta facendo strada, sempre più il ricorso e utilizzo di recorder, a captare voci che così sembrano grida dal deserto, distanti dall’essere realmente ascoltate a dare un aiuto. Oggi si proiettano filmati dove gli attori non sono persone, ma personaggi creati fantastici, a suscitare emozioni, sentimenti creati ad arte, opera di un creatore e regista. Cristo ha interrogato i suoi interessato a sapere “chi crede la gente che io sia”. La Parola, si riferiva a vita quotidiana, povertà quotidiana per la quale Lui era lì a smascherarne la durezza ; alle imposizioni volte a soggiogare la vita di molti a un potere, Egli invece ispirava valori aprendo a orizzonti di speranza nuova, cammini di vita che portano a una insperata salvezza.

  3. BUTTIGLIONE PIETRO ha detto:

    Aggiungo ai tanti warning, timori, attenti al lupo, ben superiori ai
    SE NON SI FA COSI’ SI MUORE!!
    il mio:
    Che tra le tante parole astratte che potrei qui elencare non si finisca in un ghirigoro di esse che ognuno poi interpreta a modo suo, Torre di Babele rifugio comodo di chi si rifiuta di cambiare.
    PS. Ottimo il rimandare le conclusioni alle Chiese locali.

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