Tensioni ecclesiali e involuzioni linguistiche

Nei dieci nuclei della sintesi nazionale gli sprazzi di cambiamento vengono opacizzati dai noti conflitti ecclesiali non risolti...
3 Ottobre 2022

Nei dieci nuclei della sintesi nazionale, la dichiarata centralità e la priorità della Vita conduce ad auspicare un «rinnovamento» e «ripensamento complessivo» che, però, con grande difficoltà riesce a farsi strada in essi e a trovare un’armonica presenza.

Da un lato, infatti, bisogna riconoscere che nei dieci nuclei sono contenute almeno due proposte reali di cambiamento, non più solo al pur importante livello delle parole, ma anche a quello delle strutture. La prima, esplicita, quando si ipotizza «la creazione di un “ministero di prossimità” per i laici dedicati all’ascolto delle situazioni di fragilità» – in modo molto simile a quanto già emerso più di tre anni fa in Christus vivit, §244. La seconda, più implicita, quando si ammette che «i luoghi e le modalità di dialogo nella Chiesa sono ancora pochi, in modo particolare tra Chiesa locale e società civile».

Sono certo due ottime proposte, rispetto alle quali, però, dobbiamo ricordare quanto sia grande nella Chiesa, come in ogni altra organizzazione, il rischio di affrontare i problemi con nuove ma poco efficaci (se non ridondanti) strutture ministeriali, quando essa dovrebbe innanzitutto valorizzare, perfezionare e, se vogliamo, istituzionalizzare la ministerialità dei battezzati che già accolgono, ascoltano, dialogano ed elaborano linguaggi e teologie più includenti delle persone che per vari motivi si sentono o sono fuori – o sulla soglia – dalla Chiesa. Circa la riattivazione e il rafforzamento dei luoghi ecclesiali di partecipazione e dialogo già esistenti, in tutti i documenti del cammino sinodale è stato scritto che è fondamentale e improcrastinabile procedere in tal senso: sarebbe finalmente l’ora di passare alla messa in atto di tale rilancio.

D’altra parte, proprio nel paragrafo in cui è presente la prima proposta di cambiamento, il linguaggio mi sembra molto involuto – cosa ben diversa dal definirlo generico o scritto in ecclesialese (come hanno sostenuto molti critici della sintesi finale). L’impressione è che non si sia riusciti ad armonizzare una diversità di vedute interna alla Chiesa che, quindi, tanto più si cerca di non dichiarare tale, tanto più si manifesta in modo confuso. Questo il passaggio che, a differenza di Paola Springhetti, mi ha colpito in negativo: «non si tratta di pensare che chi è parte della comunità ecclesiale debba fare uno sforzo di apertura verso chi rimane sulla soglia. Piuttosto, l’accoglienza è un cammino di conversione per dare forma nella reciprocità a una comunità fraterna e inclusiva che sa accompagnare e valorizzare tutti. Questa consapevolezza consente di superare la distinzione “dentro” / “fuori”. Vivere l’accoglienza significa armonizzare il desiderio di una “Chiesa in uscita” con quello di una “Chiesa che sa far entrare”, a partire dalla celebrazione dell’Eucaristia».

Mi domando: il fatto che si voglia uscire verso o far entrare (soprattutto nell’Eucaristia) chi si affaccia alla frontiera non comporta anche «uno sforzo di apertura»? E la «conversione», prospettata come alternativa a questo sforzo, se è certamente frutto della grazia e della preghiera, non dipende anche dall’impegno e dalla forza di cambiare direzione? Se la «reciprocità» evocata non è il traguardo sperato, ma (come sembra) la condizione di una fraternità inclusiva, che fine fa la gratuità del primo passo verso chi sosta sulla soglia? Perché si sente così tanto l’esigenza di superare la distinzione dentro/fuori se essa è presente – in modo positivo e non problematico – anche nella prima comunità di Gesù? Forse perché “Chiesa in uscita” e “Chiesa che sa far entrare” sono due modi edulcorati (dai conflitti del passato) per riferirsi alle due chiese (della mediazione e della presenza) che si fronteggiano ormai da troppi decenni, soprattutto sui “requisiti” per partecipare (o meno) alla celebrazione eucaristica?

Anche qui, come più volte segnalato, rimuovere un conflitto ecclesiale senza attraversarlo e pacificarlo comporta il suo ritorno in forme ancora più caotiche. In tal senso, c’è un altro passaggio nei dieci nuclei della sintesi che oscilla tra il generico, l’ecclesialese e il linguaggio involuto, ossia quando si vorrebbe far capire che la forma linguistica delle verità cristiane è strettamente collegata con la sostanza di tali verità e con la vita dei fedeli: «la conversione del linguaggio richiede di tornare a contattare il cuore pulsante dell’esperienza della fede all’interno della concretezza della vita degli uomini e delle donne di oggi». Non è un caso che ci si trovi di fronte ad un altro nodo non sciolto del dibattito ecclesiale, cristallizzatosi nella convinzione spesso ripetuta che il linguaggio con cui diciamo la verità sia poco più che un rivestimento facilmente adattabile (magari solo un po’ ingentilito), ma non anche – come crediamo – qualcosa che per potere essere adattato a nuovi contesti e nuove persone deve invece sgorgare (almeno) da un approfondimento sostanziale della verità vissuta e comunicata.

Infine, c’è un terzo esempio di linguaggio involuto, ossia quando si parla di «accompagnamento» da parte della Chiesa, del suo «stare a fianco», «sostenere», «essere punto di riferimento». La prima espressione, infatti, seppur classica, mi sembra ormai equivoca perché, alla luce dei problematici rapporti tra chierici e laici sanciti dalla sintesi, l’accompagnamento evoca modalità paternalistiche di vicinanza (quasi a dire “ti guido io perché da solo non ce la fai…”.), mentre si potrebbe parlare in modo più adeguato di compagnia. Stessa notazione può essere rivolta all’obiettivo di tale prossimità: altro è parlare di «coltivare la propria coscienza credente» o di «accrescere le proprie risorse relazionali, cognitive, affettive, spirituali» – espressioni che rispettano maggiormente il percorso autonomo delle persone – altro è evocare l’«autenticità» o meno dell’altrui esperienza umana e di fede. Ovviamente ciò non significa che la Chiesa non possa o non debba più esercitare il proprio munus docendi, ma sarebbe importante capire definitivamente che quest’ultimo non può essere la prima e sola preoccupazione ecclesiale quando si pone in relazione con l’umanità dei nostri giorni.

In definitiva, nei dieci nuclei della sintesi italiana l’accento messo sulla Vita permette di cogliere, dentro e fuori la Chiesa, tutta quella pluralità e complessità del reale che oggi chiede alla Chiesa delle ministerialità personali e degli spazi comunitari adeguati, ma che al contempo provoca, o meglio rievoca, tensioni difficili sia da nascondere che da armonizzare. Vedremo nell’ultima parte dell’analisi, quali percorsi sono stati indicati, a livello di strutture e di soggetti pastorali, per provare a uscire da questa impasse.

 

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