Smontato il presepe, che cosa resta?

Un invito a osservare quali altri segni cristiani ci mettiamo in casa. Perché non estendere il dibattito sull’assenza del crocifisso alle abitazioni private?
11 Gennaio 2012

CHE FIGURA!

Sarà capitato anche a voi, nelle vacanze natalizie, di andare a trovare gli amici e i parenti e, fra i doni e i panettoni, di dare una sbirciata al presepe. A me succede pure di buttare un’occhiata alle pareti (deformazione professionale? voglia di spiare i gusti artistici dei padroni di casa?) e ho l’impressione che nelle nostre abitazioni, oltre al presepe – grande invenzione da benedire ma che, ahimè, è già ora di riporre in baule –, di cristiano sia rimasto poco.

Vero è che non vado a visitare tutte le stanze, ma in quelle di rappresentanza – dove si ricevono gli ospiti – è raro imbattersi persino in un crocifisso. Mentre un tempo – di cui, dico subito, non ho rimpianti – si potevano quasi sempre incontrare un Sacro Cuore di Gesù (nella versione del Batoni, promossa dai Gesuiti e dall’Università Cattolica), una riproduzione di Maria con in braccio Gesù bambino, il rosario a grani grossi appeso sopra il letto matrimoniale e, su una mensola, una Madonnina di plastica con l’acqua di Lourdes. Spesso con un accostamento di stili che facevano a pugni tra loro (come, d’altronde, avviene nelle chiese…). Negli anni Sessanta c’è stata la novità delle foto incorniciate, soprattutto di Giovanni XXIII e di Padre Pio (soppiantate o accompagnate – in questi ultimi anni – da quelle di Giovanni Paolo II e, in Puglia, di don Tonino Bello). Poi sono apparsi i primi poster (da ragazzo avevo affisso al muro la Pietà di Michelangelo che è a Firenze, nel Museo dell’Opera del duomo). E alla fine degli anni Settanta è iniziato il successo delle icone, che facevano venire l’orticaria agli amanti dell’arte nostrana.

Ora, però, sembra d’essere ripiombati nel deserto (salvo eccezioni, naturalmente), nonostante la riproducibilità delle opere d’arte consenta di avere in casa autori di altissimo livello: da Giotto a Caravaggio, da Chagall a Congdon. Perché questo vuoto? Azzardo un’ipotesi: forse c’è bisogno di opere d’arte sacra più significative e coraggiose, che non siano «quelle che offre il mercato» (botteghe equosolidali comprese). Opere più capaci di aderire all’immagine di Dio che abbiamo nel cuore e con un valore artistico superiore al Gesù misericordioso di Santa Faustina Kowalska e alla Maria della medaglia miracolosa.

Nel corso di un recente viaggio in Polonia ho fatto esperienza della fede di un popolo. Che la esprime, sì, in tante Madonne da giardino (comunque migliori dei nani di Biancaneve). Ma che è stata capace di partorire il Cristo pensante (Jezus frasobliwy), un soggetto apparso per la prima volta nei Paesi nordici alla fine del XIV secolo e assente nell’arte italiana (salvo una recente installazione su una cima dolomitica). È una statua di Gesù con la corona di spine, ritratto prima della crocifissione, seduto come il Pensatore di Rodin. Assorto e dolente, nello spirito ancor più che nel corpo. Questo Cristo che non solo soffre ma che riflette sul soffrire, immaginato dalla visionarietà dell’artista in un momento che ha poche probabilità d’essersi verificato, ha qualcosa di fisico e insieme di metafisico che incanta. Anche se l’arte italiana ed europea hanno l’Uomo dei dolori o l’Imago pietatis (dove il Signore si erge dalla tomba), il Cristo pensante ha una specificità proprio nell’atteggiamento di meditazione ed è singolare che continui a essere scolpito ancor oggi in varie forme e dimensioni.

Dopo aver ascoltato un malato, nel letto d’ospedale, confessare il desiderio di pregare avendo Qualcuno davanti a sé, mi sono venuti in mente il Cristo pensante e il lungo dibattito sulla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici. Che per il malato è ben più di un simbolo, anche se da taluni è stato brandito come una bandiera o come un’arma. Perché non estendere ora quel dibattito all’assenza del crocifisso nelle abitazioni private dei cristiani e alla qualità dei crocifissi in circolazione, non sempre adeguati al sentimento di fede odierno?

Offro un esempio di creatività nella rappresentazione del crocifisso, per discuterne. Si trova nel libro Un rabbi che amava i banchetti, di Enzo Bianchi, illustrato nel 1985 da Emanuele Luzzati. Che ha dato vita a un Cristo danzante. Infatti, scrive Bianchi, «Gesù era in croce ma quel pomeriggio, pur essendo inchiodato, danzava di gioia. Danzava per il fariseo e per il pubblicano, per il sacerdote e per il pagano, per lo scriba e per chi non conosceva Dio. Noi dobbiamo cercare di vedere la morte di Gesù non solo con i nostri occhi ma con gli occhi di Dio». E prosegue: «Gesù fisicamente piangeva, urlava, ma nel suo spirito danzava di gioia perché finalmente l’uomo era da lui riconciliato con Dio. In tre anni era riuscito a spiegare chi era Dio, almeno a quelli che avevano vissuto con lui, dicendo loro: “Il vostro Papà che è nei cieli, il vostro vero Papà, è uno che dà la vita per voi”».

Anche se non si tratta di un’opera d’arte ma di un’immagine di un libro per ragazzi, mi sembra un bel modo di tenere insieme la crocifissione e la risurrezione, il dolore e la gioia, come accadeva prima del XIII secolo, ai tempi del Christus triumphans, che, pur stando in croce, aveva gli occhi aperti e… come una specie di sorriso. Quasi quasi lo metto in cornice.

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