Sinodo italiano in sintesi: le parole sono importanti!

A leggerla bene, la sintesi italiana del primo anno del cammino sinodale è meno generica e clericale di quanto possa apparire...
9 Settembre 2022

I primi giudizi sulla Sintesi nazionale della fase diocesana del Sinodo 2021-2023 (“Per una Chiesa sinodale: Comunione, partecipazione e missione”), che la Presidenza della CEI ha consegnato il 15 agosto alla Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi sono (a mio avviso ingiustamente) poco generosi: Vinicio Albanesi e Maurizio Rossi hanno parlato di una «(non) sintesi», comunque «clericale» e «priva di mordente», mentre Roberto Beretta di «punti astratti e generici» e di «questioni spinose risolte in ecclesialese» (post.it, 28 agosto). Più propositiva – e condivisibile – l’analisi di Paola Springhetti che ha evidenziato nella Sintesi della CEI alcuni «spunti interessanti che (…) possono portare a riflessioni e azioni interessanti».

«Le parole sono importanti», urlava con forza Moretti in un film di quasi trent’anni fa: come insegna anche il racconto finale del vangelo di Giovanni (21,15-17), dire ad una persona ti amo è ben differente dal dirle (soltanto) ti voglio bene – per non parlare di quando si smette di dire entrambe le frasi. Non usare più certe parole – o usarle male – dice molto del soggetto che tace o che mal-dice. Il fatto che la CEI ricominci ad usare o evocare parole dense di significato filosofico e teologico (come mondo, altri, parresìa) non può dunque essere sottaciuto o minimizzato.

Perciò è molto significativo che in apertura (§1) e conclusione (§3) della sintesi, riprendendo brevemente le notevoli prospettive per il secondo anno del Cammino sinodale italiano (I Cantieri di Betania), emerga di nuovo e con forza l’attenzione agli altri – ascoltati e consultati «anche al di là del perimetro di coloro che si sentono membri della comunità ecclesiale», fino alle «persone talvolta confinate nell’invisibilità» o nel «silenzio» – e l’attenzione ai loro mondi – impegnandosi ad «andare incontro a chi non frequenta le comunità cristiane» e «a coloro che non sono stati coinvolti finora», ma rivendicando tutto «lo sforzo di raggiungere anche (…) circuiti che hanno un minor ancoraggio parrocchiale» (povertà, giovani, scuola, università, sport, arte, lavoro, volontariato, Terzo settore, etc.). Non è un caso che questa duplice attenzione la si ritrovi chiara ed evidente in quello che Gilberto Borghi ha qui definito “il manifesto programmatico” del neopresidente della CEI cardinal Zuppi.

Una critica più centrata, invece, la si sarebbe potuta rivolgere all’evidente venir meno, rispetto ai Cantieri di Betania, dell’ancor più significativa categoria – con annessa citazione di GS 44 – dell’imparare ecclesiale da questi “mondi” altri, ossia dell’immagine discepolare della Chiesa. D’altra parte, tale assenza è comprensibile se pensiamo che, probabilmente, I Cantieri di Betania sono più il frutto del gruppo che oggi guida la Chiesa italiana, mentre la sintesi rispecchia maggiormente la Chiesa italiana nel suo insieme. E chiunque abbia partecipato al primo anno del cammino sinodale sa quante resistenze hanno trovato nelle chiese locali categorie come quella dell’imparare ecclesiale dai “mondi” altrui o immagini come quella della Chiesa discepolare, non tanto di Cristo ma di Cristo negli altri (Mt 25,40.45). Non basta che nel §2 della sintesi il verbo imparare sia formalmente presente, oppure che si chieda alla Chiesa di «far cadere i pregiudizi», di «rinunciare alla pretesa di sapere sempre che cosa dire» o di «imparare dalla cultura attuale maggiore capacità di dialogo e confronto (…) sapendo anch’essa mettersi in discussione» e «decentrarsi», perché ciò nonostante nella sintesi nazionale la postura, lo stile discepolare viene svuotato del senso e del forte impatto che ha nei Cantieri di Betania.

Se comunque significativo deve essere valutato il riconoscimento del «valore prezioso» dell’altro, altrettanto dovrebbe essere considerata la capacità della Chiesa di confessare con parresìa i propri limiti e le proprie mancanze – altrimenti rischiano di diventare sterili i nostri rimproveri verso gli apparenti irenismi e l’unità “appiccicaticcia” spesso propagandati dalla gerarchia ecclesiastica. Nella sintesi, infatti, si riconosce con forza «il debito di ascolto» nei confronti di questi “mondi” altri, insieme al fatto che il cammino sinodale «ha intercettato principalmente la parte della comunità ecclesiale italiana che in qualche modo gravita o afferisce ai circuiti parrocchiali» e per la quale «la parrocchia resta il paradigma strutturante dell’immaginario pastorale e missionario». Ma la confessione di questa carenza di  «finezza dell’udito» verso gli altri riguarda la Chiesa non solo ad extra ma anche ad intra e nel suo rapporto con l’Altro, poiché si è riconosciuto, da un lato, che la «sinodalità vissuta» ha instaurato «una dinamica che aiuta a passare dall’“io” al “noi”, da una prospettiva individuale a una comunitaria», superando «steccati» e pastorali «arroccate su posizioni di difesa», e, dall’altro lato, che è necessario «radicare meglio l’azione nell’ascolto della Parola di Dio», perchè «il Signore si lascia incontrare nella vita ordinaria e nell’esistenza di ciascuno, ed è lì che chiede di essere riconosciuto». Viene ripetuto poi l’onesto riconoscimento delle «incertezze e perplessità», delle «resistenze» e «fatiche» che hanno accompagnato questo primo anno di Cammino sinodale, evidenziando – con coraggio e direi “mordente” – la presenza di esse in «una porzione non trascurabile del clero» e «del ministero episcopale». Forse, in questo secondo anno di ascolto sinodale, sarebbero da approfondire meglio le motivazioni di questi presbiteri e vescovi.

Infine, la Chiesa italiana prende degli impegni che in questa prima fase suoneranno inevitabilmente come delle promesse “elettorali”, ma che potranno essere verificati molto facilmente nel loro concretizzarsi o meno e, quindi, nel loro essere realmente delle «priorità». Essa infatti ribadisce la volontà di perseguire, non «un processo destinato semplicemente a lasciare le cose come stanno», ma «quella riforma che il Signore domanda continuamente alla sua Chiesa» – soprattutto in merito ad «alcune annose questioni» come «il clericalismo, lo scollamento tra la pastorale e la vita reale delle persone, il senso di fatica e solitudine di parte di sacerdoti e di altre persone impegnate nella vita della comunità, la mancanza di organicità nella proposta formativa, l’afasia di alcune liturgie».

Riuscirà la Chiesa italiana ad «affrontare il tema del decentramento pastorale», a «rivitalizzare gli organismi di partecipazione ecclesiale» e a «realizzare concretamente uno stile di leadership ecclesiale animato dalla sinodalità»? A «riscoprire la corresponsabilità che viene dalla dignità battesimale e (…) superare una visione di Chiesa costruita intorno al ministero ordinato per andare verso una Chiesa “tutta ministeriale”, che è comunione di carismi e ministeri diversi (…) innestati nella comune vocazione battesimale del Popolo di Dio “sacerdotale, profetico e regale”»? A «crescere nello stile sinodale e nella cura [dell’effettiva qualità] delle relazioni, a sviluppare e integrare il metodo della conversazione spirituale, a promuovere la corresponsabilità [anche femminile] di tutti i battezzati, a snellire le strutture (…) perché siano al servizio della missione e non assorbano energie per il solo auto-mantenimento»?

Certo è che questa riforma sembra essere possibile, per la CEI, solo mettendosi seriamente in ascolto della «vita» e dei «vissuti» degli altriintra ed extra ecclesiam – leggendoli però come «un dono», dentro un’ottica di «scambio autentico, in cui cogliere i “segni dei tempi”», non dimenticando i «semi del Verbo presenti in ogni contesto, (…) nei luoghi e nelle forme più impensate». Non si può non riconoscere che questa priorità della vita e dei vissuti, soprattutto rispetto alle norme giuridiche, alle istituzioni e nel caso anche alla dottrina, è qualcosa che potrebbe diventare dirompente. Lo stesso Papa Francesco ha di recente evocato questo aspetto, invitando l’ecumenismo teologico a «riflettere non solo sulle differenze dogmatiche sorte nel passato, ma anche sull’esperienza attuale dei nostri fedeli (…) perché il dialogo sulla dottrina proceda insieme al dialogo della vita»: «il dialogo sulla dottrina potrebbe adeguarsi teologicamente al dialogo della vita che si sviluppa nelle relazioni locali e quotidiane delle nostre Chiese, le quali costituiscono un vero e proprio luogo teologico».

Anche il cardinal Zuppi, alla luce della seconda riflessione di Gilberto Borghi sul “manifesto programmatico” del Presidente della CEI, sembra prospettare la stessa direzione. Dato, però, che questa priorità dell’«esistenza delle persone» e delle «interconnessioni della vita» innerva totalmente i dieci nuclei elaborati nel §2 della sintesi, vedremo meglio le sue implicazioni nel contributo dedicato ad essi.

 

2 risposte a “Sinodo italiano in sintesi: le parole sono importanti!”

  1. Sergio Ventura ha detto:

    Grazie per l’apprezzamento Luigi!
    Circa gli stimoli, i suggerimenti, le provocazioni…ci proviamo sempre 😉

  2. Luigi Colusso ha detto:

    riflessione molto apprezzabile. Da laico credente e frequentante, credente anche nel sinodo e finora piuttosto deluso, anche dalla caduta nel vuoto dei miei timidi conati di intercettare lo svolgimento del sinodo nella mia diocesi, spero di leggere qui qualche stimolo, suggerimento, provocazione… che mi aiuti nel riuscire ad essere coinvolto nelle tappe successive

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